La storia dell'attivista e assessore di Napoli, primo single ad aver adottato una bambina (la piccola Alba), diventa un film. «Nessuno deve giustificarsi se vuole diventare padre. La famiglia tradizionale non è mai esistita». E sulla politica: «Giorgia Meloni voleva incontrarmi ma poi è sparita. Roccella? Non rappresenta l'Italia»

Luca Trapanese si racconta a L’Espresso e frantuma ogni certezza che media e social gli hanno costruito intorno. Una narrazione deformata che lo vuole attivista Lgbt, salvatore e santo. Una figurina luminosa che insieme a sua figlia Alba viene bene nelle foto e raccoglie like per le giuste cause. «Nulla di tutto questo, sono solo una persona con un forte desiderio di paternità che oggi è padre di Alba». Sembra poco, invece è tantissimo. La sua vita è sceneggiata per il grande schermo da Fabio Mollo regista di “Nata per te”, nelle sale dal 5 ottobre, spirato il libro, scritto con Luca Mercadante, edito da Einaudi, “Nata per te”.. Luca single, omosessuale, cattolico ha adottato a un mese dalla nascita la bambina con sindrome di down che era stata rifiutata da trenta coppie diverse. 

 

Quello di Trapanese, oggi assessore comunale alle Politiche sociali di Napoli, rappresenta il primo storico precedente in Italia in cui una persona single e omosessuale riesce ad adottare una figlia. E porta avanti una "testimonianza" dice lui stesso, che serve per rompere i pregiudizi di un paese fortemente abilista e «per cambiare le regole del gioco». Non importa come, non importa con chi: del resto Trapanese ancora aspetta di parlare dal vivo con la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che in uno scambio di post si era detta disponibile a incontrare lui e sua figlia. «La realtà è qui, non nel suo mondo ideologico». 

 

Trapanese cominciamo con un'osservazione banalissima di quelle che si fanno per rompere il ghiaccio, Fabio Mollo ha colto in "Nata per te" la storia sua e di Alba? 
«In pieno. Si è trasferito a casa mia. È diventato uno zio per mia figlia. Condividiamo insieme tanto altro. Fabio è stato il regalo più grande che potessi avere per fare in modo che questo non fosse un film commerciale ma un film che racconta una storia faticosa che ha tanti pezzi dentro: paternità, omosessualità, disabilità, abbandono, rifiuto».  

 

Pierluigi Gigante che la interpreta ha portato sul grande schermo un personaggio gay indifferente alla richiesta dei diritti della comunità Lgbt. In una scena ripete: «Non voglio che Alba diventi una bandiera». Che rapporto ha con la comunità Lgbt? 
«Vengo dall’associazionismo, ci credo. Con la comunità Lgbt ho un rapporto di condivisione ma io non ho deciso, in seguito alla fama della nostra storia, di essere un rappresentante della comunità Lgbt. Questo è un errore. Ho deciso di legarla alla storia di Luca. Io non sono solo "Luca l’omosessuale". Sono credente, posso decidere di adottare una bambina con la sindrome di down perché ho lavorato con i disabili. La mia storia non è una bandiera del movimento Lgbt. Non dobbiamo più essere incasellati in qualcosa».

 

Eppure quando parlano di lei si fa sempre riferimento al suo orientamento sessuale, le hanno costruito intorno la storia dell'attivista gay che vuole un figlio.
«No, è la storia di un uomo single che vuole esprimere la sua paternità e ha tutto il diritto. Nel film c’è una scena in cui il protagonista ripete: “Che vuol dire diritto acquisito? Perché lo devo acquisire? Io ci sono nato”. Tutto quello che è nella vita è un mio diritto. Non devo acquisire nulla. Perché non posso avere diritto a essere un genitore? Non devo giustificarmi se voglio diventare padre, è un diritto che va a prescindere dall’orientamento sessuale. Quando sono stato inquadrato dai servizi sociali sono io che ho voluto fare coming out, nessuno me lo ha chiesto. Mi sono liberato di questo peso, anche perché poteva diventare un’arma».

 

Agli occhi di molti lei appare come una persona che ha fatto "un'opera di carità", il buono che ha accolto una bambina con sindrome di down. C'è del pregiudizio abilista dietro tutto questo?
«Certo, noi dobbiamo per forza trovare i colpevoli delle storie e i salvatori. La nostra storia è il simbolo di questo. "Che razza di madre abbandona la bambina down?". Io per 15 anni ho gestito una comunità per ragazze madri del cardinale di Napoli, adesso sono diventato assessore non lo faccio più. Ma se avessi dovuto pensare che la madre di Alba è una di quelle che ho accolto, l'avrei capita. Bisogna conoscere le loro storie, attraversarle per capirle. Se una donna non si sente in grado di fare la madre, ben venga che decida di lasciare il figlio in ospedale e dare a lui un futuro sicuro. Per mia figlia il gesto più importante è stato quello della madre che l’ha messa in protezione. E poi vorrei aggiungere un'altra cosa...».

 

Prego, lo faccia
«C'è un altro pregiudizio: "L’hanno rifiutata le famiglie tradizionali". Sa quante volte volevano usare questa narrazione? Io sono per le famiglie, hanno tutte lo stesso valore. Vanno sostenute e riconosciute. Perché la famiglia tradizionale, semplicemente, non è mai esistita. Ma quelle coppie erano stanche dall’adozione, affaticate, spaventate dalla sindrome di down. Quattro bambini al giorno vengono restituiti dopo l'abbinamento. Ma non è un problema della coppie è un sistema sbagliato. Lavoriamo tanto sulla qualificazione della coppia che vuole l’idoneità, facciamo un corso alle coppie, diamo loro il bambino e poi scompariamo. Le coppie coltivano l'idea di un figlio ideologico che poi all’arrivo, trovandosi di fronte a due estranei, non abbraccia, non usa "mamma", "papà", ecco, quella coppia ha bisogno di essere sostenuta e invece questo non avviene. Oggi un genitore che genera un figlio con la sindrome di down riceve pochissimo sostegno, tutto è frammentario da quando inizia la scuola a quando si cerca di immaginare un futuro».

 

Riprendendo quello che diceva prima, mi chiedevo, le da fastidio essere considerato "un salvatore"? 
«Sì, assolutamente. La mia è una storia che mi ha portato a fare quella scelta non perché sono bravo ma perché ci sono cresciuto. Ho imparato da piccolo la disabilità. Le immagini del film con il protagonista che nuota con i ragazzi con disabilità sono scene di vita vera, “La casa di Matteo” la struttura di via Pigna, al Vomero, che accoglie i bambini in stato terminale, l’unica a Napoli, l’ho fondata prima che nascesse Alba. C'è una consapevolezza».

 

Ma questo bisogno di sostegno alle persone con disabilità, questa "consapevolezza" come dice lei, da dove nasce.  
«È una vocazione non un bisogno, quello di lavorare nel sociale. Arriva dall’esperienza di Rocco (il suo migliore amico che si ammala e muore, ndr.), avevamo 15 anni e dopo questa esperienza potevo avere due possibilità: scappare e andare a ballare tutte le sere o capire. E sono entrato nel treno bianco per andare a Lourdes e mi si è aperto un mondo. Facciamo confusione tra malattia e disabilità. Le risposte istituzionali sono tutte uguali. Ma se sono malato mi trovo in una condizione in cui posso guarire o morire. Alba che ha una disabilità: è nata disabile e morirà disabile ma non è in una condizione di malattia. La società non è pronta ad affrontare questa condizione di diversità e la tratta come una malata».

 

Lei ha scritto due volte a Giorgia Meloni. La prima le ha anche risposto accettando il suo invito per conoscere la realtà sua e di Alba: “Verrò a mangiare la vostra pizza leggendaria”, le ha risposto la Presidente del Consiglio. Di recente Meloni ha ribadito la necessità per i bambini di avere "un padre e una madre". Spera ancora in questo incontro?
«La sto ancora aspettando. Il presupposto per costruire è dialogare, non combattere. Non porto avanti nessuna battaglia, racconto le esigenze e i bisogni. E con Giorgia Meloni è quello che vorrei fare. Perché quello che dice non ha aderenza nella realtà. È un suo bisogno ideologico, ma non può rispettare il Paese. Quando nel 1999 in Francia fecero il referendum per ampliare l’adozione ai single e uscirono allo scoperto 500mila famiglie single, la risposta fu sociale. Perché non iniziamo a capire quanti siamo? L’adozione per i single è un’esigenza per gli italiani. Non c’è l’omosessuale single. Ma la persona. Rilancio: incontriamo Presidente Meloni, le farò vedere la realtà della nostra vita».

 

Che idea ha dell'operato della ministra alla disabilità Alessandra Locatelli? 
«Al di là del colore politico, la ministra Locatelli sta lavorando bene ed è molto attenta. Sta cercando di promuovere una serie di nuovi fondi per la disabilità. Quantomeno è interessata all’argomento. Va a conoscere le associazioni, si confronta. La ministra della Famiglia non ne voglio parlare».

 

Parliamone invece.
«Non rappresenta l'Italia. I valori umani che dovrebbe rappresentare una ministra della famiglia. Non è pensabile dire: bisogna ritornare alle origini, sostenere la famiglia tradizionale madre, padre, due figli. Lascia fuori mezzo paese. Divorziati, chi ha perso i genitori, le famiglie allargate, le donne che crescono figli da soli? Che facciamo? È preoccupante. Perché un ministro che pensa questo costruirà politiche economiche e sociali solo per un modello. E non siamo un modello unico».

 

Lei è un attivista?
«Certo, sono attivo nei temi che racconto e per la mia città».

 

Ecco, c'è chi critica il fatto che lei stia usando la sua storia per visibilità e fama. 
«Io sono una persona che ama stare isolata in campagna. Ma dobbiamo essere testimoni di noi stessi. Se io avessi preso Alba e mi fossi nascosto in casa dicendo "a me è andata bene pazienza per gli altri", avrei fatto un danno a me stesso e ad Alba. Non serve al cambiamento che vogliamo. La società cambia quando c’è una testimonianza. Il privato è pubblico. Tutto. Nel film c’è una domanda che resta in sospeso: “E se queste regole fossero sbagliate?” Le leggi in questo Paese sono sbagliate. E allora ne dobbiamo parlarne».