Leggendo le carte private del “picconatore” si ripercorrono vicende scottanti della Repubblica, dalla mafia all'omicidio Moro. Ma chi pensa di trovarvi la pistola fumante rimarrà deluso

Autorevoli personalità e rappresentanti delle istituzioni della Repubblica hanno omaggiato Francesco Cossiga presentando il suo Archivio privato, lo scorso 17 gennaio, nella prestigiosa Sala della Regina della Camera. Da Giuliano Ferrara e Marco Minniti a Miguel Gotor, da Giuliano Amato e Pasquale Chessa a Luigi Zanda, oltre a Gianni De Gennaro, Elisabetta Belloni, Lorenzo Guerini, Paolo Savona, Ludovico Ortona e Mario Segni: tutti a celebrare «il grande uomo di Stato» (cit. Ferarra), «lo statista irregolare» (cit. Minniti), esaltando la sua personale interpretazione della politica che «si imbizzarrisce, si mescola ai sentimenti, un potere in versi» (ancora Ferrara).

 

Uomo politico che ha «dato forma», si potrebbe dire, alla Repubblica italiana del ’900, Cossiga è stato un interprete della politica nel tempo in cui la sovranità limitata la rendeva tacita, sotterranea e ambigua (in fin dei conti siamo sempre lì): prima silenzioso, quasi dimesso per buona parte della sua vita, poi molto vivace. Grande protagonista, silenziosissimo, del caso Moro, grandissimo sponsor della Stay Behind (a cui è dedicata una parte dell’Archivio, con carte dal 1070 al 2006), una sua quasi-creatura, se non fosse stato all’epoca molto giovane pur seguendone da sottosegretario e stretto collaboratore di Paolo Emilio Taviani (che di Gladio fu il padre), gli atti costitutivi, Cossiga si inalberò assai quando l’audace Giulio Andreotti fece cadere il segreto. Uomo di «rottura», ha detto Minniti – curioso sentirlo dire dall’ex comunista che avrebbe dovuto cambiare il mondo, ma che si ritrovò in un governo (quello D’Alema) di cui proprio il presidente emerito dettò gli organigrammi: «alla Difesa sai chi devi metterci», ricorda – e di impetuosi assalti, soprattutto ai magistrati con cui ingaggiò un duello anticipatore, Cossiga non ha lasciato segreti in questo suo archivio. Di questo sono tutti certi.

 

Composte da un inventario di 800 pagine, organizzate in 3.474 fascicoli, le carte donate dai figli di Cossiga alla Camera, ormai a disposizione degli studiosi, non contengono la “pistola fumante” dei segreti della Repubblica perché da uomo di Stato – si coglie nelle parole o nei pensieri degli intervenuti – i segreti se li è portati con sé. Le materie raccolte sono attraenti a giudicare dai titoli: mafia e antimafia, partiti, presidenza della Repubblica, Chiesa-Vaticano, Concordato, Forze armate, caso Mancuso, Carabinieri. Oltre al caso Moro, ovvio.

 

Che questo fascicolo non contenga segreti c’è da crederci, perché fu già acquisito dal presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta, Giuseppe Fioroni, nel novembre del 2017. Dunque già scandagliato, eppure non per questo privo di interesse. Anzi, il carteggio degli anni ’90 tra Cossiga e Valerio Morucci è di estremo interesse, perché trapela da quelle missive una familiarità, forse una confidenza, poi tutta confluita nell’accordo che portò alla stesura del famoso memoriale che prese il nome del suo autore, Morucci, scritto con la fondamentale collaborazione degli agenti della nostra intelligenza. Un dossier più che una testimonianza. Nelle pieghe delle carte, tra le righe, negli intervalli tra le parole, perfino nella punteggiatura, si può guardare più lontano, spiare nei pensieri di chi le ha scritte: così sarà anche per l’Archivio Cossiga. Certo, la “pistola fumante” non c’è. Se c’era, stava nell’altra parte dell’Archivio, quella istituzionale, ma chissà dov’è.