Nel mondo sono cinquanta milioni e stanno crescendo, anche nel nostro Paese. Si tratta di persone oppresse per ragioni economiche, tenute alla catena da minacce, violenze, coercizioni o inganni. Un dramma che riguarda migranti e italiani

Oltre 50 milioni di persone nel mondo vivono in una condizione di «schiavitù moderna». Di queste 200 mila si trovano in Italia e i numeri sono in costante crescita da un decennio. Ma il nostro Paese non è il solo in cui si registra un preoccupante aumento di pratiche lesive della dignità e dei diritti delle persone. Le guerre e gli aumenti dei prezzi dei beni di prima necessità, le spinte alla crescita produttiva senza remore in alcuni Stati come India e Cina, i grandi eventi internazionali come i Mondiali di calcio e le catastrofi naturali stanno delineando un contesto in cui il concetto di «schiavitù moderna» non dipende solo dai meccanismi di sfruttamento del capitalismo. Il Global slavery index (Indice mondiale della schiavitù, ndr) del 2023, frutto di cinque anni di analisi e indagini in tutto il Pianeta ci offre un quadro impietoso e preoccupante.

 

Innanzitutto bisogna chiarire: la schiavitù non è una pratica arcaica legata a società e periodi storici passati. Non si tratta solo dei servi delle famiglie dominanti, delle migliaia di ombre chine che hanno costruito le piramidi, dei neri africani nelle piantagioni del continente americano o dei servi della gleba in Russia. La schiavitù moderna assume molte forme ed è conosciuta con molti nomi. In estrema sintesi, si riferisce a situazioni di sfruttamento che una persona non può rifiutare o abbandonare a causa di minacce, violenza, coercizione o inganno. Comprende il lavoro forzato, il matrimonio forzato o servile, la servitù per debiti, lo sfruttamento sessuale commerciale forzato, la tratta di esseri umani, l’asservimento la vendita e lo sfruttamento dei bambini.

 

L’alloggio in un campo privato che ospita lavoratori stranieri a Doha. A sinistra, pausa in uno dei cantieri del Qatar

 

In tutte le sue forme, la schiavitù moderna origina dalla rimozione della libertà di una persona al fine di sfruttarla per un guadagno personale o finanziario. Quella stessa libertà, ad esempio, di abbandonare un datore di lavoro per un altro, o di decidere se, quando e con chi sposarsi, che noi diamo giustamente per scontata. A essere totalmente onesti dovremmo dire che neanche ci riflettiamo e che nei casi più estremi, sempre ascrivibili alle situazioni di indigenza, pensiamo comunque che pur nel bisogno più nero un individuo possa, qualora decida che ne ha avuto abbastanza o che quella determinata situazione ha superato i limiti, cambiare. Tuttavia il punto è proprio questo: esistono milioni di persone che non possono cambiare nulla, neanche se lo vogliono e se ci provano. Tentare la fuga, in un contesto di schiavitù, comporta un rischio personale altissimo, spesso vicino o coincidente con la morte. Chi sfrutta non vuole si sappia. Sia che si tratti di un’azienda agricola nel basso Lazio, sia di una delle ditte che ha costruito le strutture per i Mondiali in Qatar.

 

«Lo stesso vale per gli Emirati Arabi Uniti, come a Dubai», racconta Grace Forrest, fondatrice dell’Ong australiana Walk Free, che ha ideato l’Indice globale della schiavitù 25 anni fa e negli anni ha operato in tutto il Pianeta, spesso ospite delle Nazioni Unite e di varie conferenze tra Stati. «Ritengo – aggiunge – che sia molto importante avere uno sguardo d’insieme. Pensiamo, ad esempio, al fatto che la Cop 28 è stata ospitata in un Paese in cui i lavoratori migranti sono largamente sfruttati. O all’Arabia Saudita che ospiterà l’Esposizione universale del 2030, mentre l’ultima Coppa del Mondo in Qatar ha fatto registrare decine di migliaia di casi di abusi estremi. Ciò che osserviamo nell’Indice del 2023 è il fatto che la situazione non solo non sta migliorando, ma sta addirittura peggiorando».

 

Ma cosa trasforma dei lavoratori in moderni schiavi? I motivi sono vari e generalmente sono legati alle condizioni sociali nel Paese d’origine. Coloro che fuggono da conflitti, disastri naturali o dalla repressione politica, o che cercano di migrare per lavoro, sono particolarmente vulnerabili allo sfruttamento. «Tra l’altro – continua Forrest – il numero di persone che migrano oggi è superiore a qualsiasi altro periodo negli ultimi 50 anni. Il deterioramento su larga scala dei diritti civili e politici a fronte di queste crisi aumenta i rischi per coloro che sono già vulnerabili alla schiavitù moderna». I più vulnerabili, come sempre, sono donne, bambini e migranti illegali che vengono colpiti dal fenomeno in modo sproporzionato rispetto agli altri campioni presi in esame.

 

Anche se, come racconta, il sociologo e ricercatore dell’Eurispes, Marco Omizzolo «non è impossibile che anche i cittadini dei Paesi Occidentali più industrializzati possano lavorare in condizioni di schiavitù. Nella mia attività mi è capitato di agire contro il proprietario di un’azienda agricola in provincia di Latina che teneva segregati lavoratori del Bangladesh, un ucraino e un uomo di mezza età sardo. Un italiano in Italia, ed è importante sottolinearlo perché non si può dire che questa persona sia cresciuta in un contesto dove non si ha la minima contezza dei propri diritti». Il professore è riuscito a parlarci direttamente? «No, perché quando finalmente siamo riusciti a intervenire assieme alle forze dell’ordine contro il proprietario della ditta, l’uomo è scappato, forse per paura di eventuali ritorsioni. Ma, badate bene, non si tratta di un caso isolato: abbiamo documentato le storie di decine di ragazzi italiani che hanno vissuto lo stesso identico inferno dei braccianti indiani o degli sfruttati nei laboratori tessili clandestini. Uno di quei ragazzi, che ora è in Sicilia, mi ha raccontato di aver subito minacce con le armi da parte del padrone. Un altro imprenditore a Terracina (Latina) puntava fucili a canne mozze sulla testa dei braccianti indiani per farli lavorare 14 ore al giorno. Gli puntava alla gola un coltello se per caso non andavano perché, ad esempio, avevano la febbre a 39 per aver lavorato 14 ore in campagna sotto la pioggia». In Italia contesti del genere sono quasi sempre legati alla criminalità organizzata, ma negli ultimi anni le politiche sulla migrazione e la mancanza di un quadro normativo adeguato che punisca chi sfrutta hanno peggiorato seriamente il contesto.

 

«Se dovessi incontrare il vostro primo ministro e parlare del fatto che in Italia esiste la schiavitù moderna – conclude Forrest – non sarebbe la mia opinione. Non si tratta di singoli aneddoti. La situazione è peggiorata rispetto all’Indice del 2018: i lavoratori sono in un contesto di crescente vulnerabilità e la risposta delle autorità è minore, soprattutto rispetto alla piaga delle agromafie. Ma anche per quanto riguarda settori insospettabili, legati alle cose che compriamo, usiamo e vendiamo in tutto il mondo sotto la prestigiosa etichetta Made in Italy, il quadro appare torbido. Non accade solo in Italia, sia chiaro. Negli Usa è lo stesso: lì la cifra delle persone che vivono in schiavitù moderna è raddoppiata negli ultimi cinque anni». Quasi tutti i governi del mondo si sono impegnati a sradicare la schiavitù moderna attraverso politiche ad hoc ma negli ultimi 5 anni i progressi sono stati pressoché nulli. 

 

 

Il report: la classifica di Walk Free
Tra i prodotti a rischio di schiavitù, i Paesi del G20 hanno speso di più per elettronica (243,6 miliardi di dollari); indumenti (147,9); olio di palma (19,7); pannelli solari (14,8); tessili (12,7), ma, tra questi, 10,9 sono prodotti Made in Italy

 

I Paesi peggiori

1 Corea del Nord
2 Eritrea
3 Mauritania
4 Arabia Saudita
5 Turchia
6 Tajikistan
7 Emirati Arabi Uniti
8 Russia
9 Afghanistan
10 Kuwait

 

Paesi virtuosi 

1 Svizzera
2 Norvegia
3 Germania
4 Olanda
5 Svezia
6  Danimarca
7 Belgio
8 Irlanda
9 Giappone
10 Finlandia