Moralità e sostenibilità non devono essere vincoli, ma valori per chi investe. Intelligenza artificiale, questioni di genere, dazi secondo la rettrice della Cattolica

È possibile pensare l’economia in un’ottica non unicamente utilitaristica? Può la finanza contribuire allo sviluppo delle persone invece di utilizzarle come pedine che possono essere schiacciate con indifferenza all’interno di un grande gioco? E che senso ha, in un mondo orientato sul profitto, ipotizzare un reale cambiamento di paradigmi? Sono alcune delle domande alle quali da anni Elena Beccalli dedica le sue riflessioni. 

Lei è una delle menti che pensano l’economia nel nostro Paese: maestra di tanti, membro di numerosi comitati scientifici internazionali, è stata invitata a insegnare in molte parti del mondo, dal Regno Unito a Singapore alla Cina. I suoi articoli, regolarmente pubblicati dal più importante quotidiano economico italiano, Il Sole 24 Ore, mostrano una rara capacità di divulgazione. Le sue aree di interesse scientifico sono ampie, e vanno dall’organizzazione industriale del settore bancario ai temi della tecnologia, dalla cooperazione alla biodiversità finanziaria. E i suoi studi si sono concentrati anche su questioni di etica e inclusività, sulla sostenibilità, sull’intelligenza artificiale e sulla leadership femminile. Questa eccellenza nel campo economico è diventata una delle poche donne in Italia a guidare una Università: dal 1° luglio 2024 è Rettrice di uno dei più grandi atenei del nostro Paese, l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ed è da poco arrivato nelle librerie il suo ultimo volume dal titolo “Per una Nuova Economia”, Edizioni Il Sole 24 Ore.

 

Uno dei temi attualmente più caldi è quello dell’Intelligenza artificiale, fonte di grandi opportunità ma anche di grandi rischi. L’Ia è destinata ad avere un impatto enorme sul mondo del lavoro e dell’economia. Cosa ritiene occorra fare per gestirla correttamente?

 

«È vero, l’Intelligenza artificiale, grazie alla sua natura trasversale, sta trovando applicazione sempre più ampia anche nei sistemi economico-finanziari. Tuttavia la sua integrazione nei processi e nelle attività economiche è ancora agli inizi. Ed essendo una tecnologia di impiego generale, potrebbe trasformare profondamente le economie nel lungo periodo. Attualmente gli investimenti più significativi si concentrano, oltre che nel settore tecnologico, in quelli dell’energia, della finanza e dei media, con particolare attenzione a marketing e vendite, logistica, innovazione tecnologica, compliance e gestione dei rischi. Da queste applicazioni emerge il carattere ambivalente dell’intelligenza artificiale, riconosciuta persino da Geoffrey Hinton, premio Nobel per la fisica per le sue scoperte sulle reti neurali artificiali. Un’ambivalenza che va affrontata a partire dalla questione antropologica, vista in relazione al cosiddetto paradigma tecnocratico. Quest’ultimo induce a ritenere la realtà, il bene e la verità come esiti spontanei della tecnologia tanto da portare alla negazione stessa dell’umano».

 

E questo quali rischi comporta?

 

«Non sono pochi. Innanzitutto, la capacità d’azione dei dispositivi artificiali talvolta induce gli utenti a una vera e propria servitù volontaria, forse inconsapevole. Poi c’è il rischio prodotto dall’impatto delle macchine sul modo in cui pensiamo e prendiamo decisioni, tale da determinare un nuovo sistema cognitivo, che si aggiunge a quelli analitico e intuitivo. Infine, c’è il delicato aspetto dell’autonomia degli algoritmi, che introduce il tema dell’attribuzione di responsabilità per le loro scelte. E non va dimenticato che una delle principali criticità riguarda il rischio che il valore generato venga concentrato nelle mani di poche aziende fornitrici, anziché distribuirsi tra le imprese che ne fanno uso».

 

Le discriminazioni di genere sono argomento caldo nel dibattito pubblico, e nel suo libro lei dedica ampio spazio al tema del genere nell’economia. Parla di cultura delle pari opportunità, di come i vantaggi finanziari per un maschio iniziano già in famiglia, delle donne ai vertici dei Cda. Ritiene sia necessario un cambiamento culturale anche in ambito economico?

 

«Ancora oggi le donne incontrano difficoltà a raggiungere ruoli apicali nel mondo del lavoro, nonostante siano evidenti i vantaggi connessi a una loro maggiore presenza e valorizzazione negli ambiti dell’economia, della politica e della società stessa. La partecipazione delle donne al mondo del lavoro apporta benefici in termini di crescita economica, produttività delle imprese e benessere. La disuguaglianza di genere non solo è ingiusta ma è anche un costo per la società e per le imprese, in sintesi danneggia il Pil. Secondo alcuni studi di Banca d’Italia nel nostro Paese il Pil potrebbe aumentare del 7 per cento se si raggiungesse la parità. E invece neppure la laurea in Italia sembra aiutare a ridurre il divario salariale di genere: le giovani donne con un’istruzione terziaria guadagnano in media solo il 58 per cento del salario dei loro coetanei, ed è il divario retributivo di genere più ampio nell’area Ocse. Inoltre gli ultimi dati Ocse evidenziano che, sebbene la percentuale delle laureate sia superiore a quella dei laureati, solo il 15 per cento delle donne che entrano nell’istruzione terziaria sceglie una materia scientifico-tecnologica (Stem) - materie che sono però le più richieste oggi dal mondo del lavoro - rispetto al 41 per cento degli uomini. Dati che contrastano con l’evidenza, documentata da vari studi scientifici, che la diversità crea valore».

 

Molti pensano che l’etica, in campo economico, è sì qualcosa di buono perché permette di rispettare i diritti delle persone, ma è anche un impaccio, qualcosa che di fatto rallenta lo sviluppo. Dal punto di vista del profitto si possono fare migliori affari senza di essa?

 

«La concezione utilitaristica è solo in apparenza moralmente neutra. In essa la dimensione etica è data per implicita, ma in realtà non lo è, dal momento che si fonda su un’etica puramente utilitarista. Il processo di rigenerazione del paradigma economico richiede un ripensamento di questo aspetto. Attualmente molti attori del mainstream finanziario cominciano a tenere in considerazione i profili etici, soprattutto per ottenere risultati sostenibili. Tuttavia, non accettano che l’etica sia una componente della funzione di investimento dell’investitore. Troppo spesso rimane un optional, o un vincolo da affrontare, nella visione di massimizzare il rendimento. Occorre invece “ottimizzare” i rendimenti. L’etica, cioè, deve divenire un argomento della funzione obiettivo dell’investitore, e non un vincolo della stessa. Questa è la vera rivoluzione culturale e teorica».

 

Tradizionalmente, però, le teorie economiche spiegano che perseguire l’interesse individuale porta alla crescita del bene comune.

 

«La scuola anglosassone, ancora dominante in ambito economico e finanziario, è basata su una prospettiva di natura utilitaristica: le scelte economiche migliori sono quelle che ottimizzano l’utilità del singolo, considerato come soggetto isolato, razionale e unicamente motivato dalla massimizzazione della propria soddisfazione individuale. Una concezione lontana dalla realtà e della quale prima la crisi finanziaria globale e poi la pandemia hanno messo in luce i molti limiti e anche le profonde ingiustizie sociali che ne derivano. Dunque, è una prospettiva non in grado di promuovere spontaneamente il bene comune».

 

Le teorie economiche diventano sempre più raffinate, gli economisti guadagnano spazio all’interno dei governi di tutto il Pianeta, eppure nel mondo le differenze, sia tra le nazioni che all’interno delle società, crescono fino a essere arrivate a livelli drammatici. Cosa sta accadendo?

 

«Come dicevo, la pandemia e la crisi finanziaria globale hanno messo in luce i numerosi limiti dell’attuale modello economico. Ne sono una conferma le laceranti disuguaglianze che ci sono tra Paesi e all’interno dei Paesi, e il numero crescente di persone che vivono in condizioni di estrema povertà. Se definiamo la povertà estrema come avere un reddito inferiore a 5,5 dollari al giorno, nel mondo sono quasi tre miliardi le persone in tale condizione: la maggioranza della popolazione rischia di essere esclusa ed emarginata. La questione non si limita alla sfera economica ma si estende a quella sociale con ripercussioni, ad esempio, in termini di accesso all’acqua, al cibo, alle cure mediche e all’educazione. Per contrastare tali divaricazioni sono necessari sforzi per elaborare modelli che - coinvolgendo attori istituzionali, universitari ed economici - portino a “nuove architetture”, a partire da quella finanziaria, come ci ha sollecitato Papa Francesco nell’ultimo Messaggio per la giornata mondiale della Pace».

 

Sul panorama economico mondiale si erge adesso la decisione del nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di aumentare i dazi per molte nazioni, come Canada, Messico e Cina. Una presa di posizione che riguarda anche l’Europa. Lei cosa ne pensa?

 

«Data l’elevata interconnessione delle economie mondiali, la minaccia dei dazi statunitensi sull’Europa potrebbe innescare una situazione particolarmente critica. Una guerra sui dazi non farebbe bene a nessuna economia, come dimostrano peraltro le reazioni dei mercati di borsa in forte discesa. Ciò trova un saldo fondamento nella teoria economica tracciata da Adam Smith nel trattato “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni” del 1776. Un impianto teorico in cui si critica il protezionismo e al contrario si sostiene il libero scambio in quanto fattore di concorrenza e crescita della ricchezza generale. Bisogna peraltro tener conto della natura dei dazi. Se questi sono pensati per proteggere le economie nazionali, le conseguenze negative sono quelle indicate da Adam Smith già nel Settecento. Se invece si trattasse di oneri con finalità sociali e di sostenibilità, per esempio orientati alla salvaguardia del Pianeta per controbilanciare le esternalità negative associate ad alcuni modelli di produzione, si potrebbe aprire una nuova prospettiva».