ricorrenze
Due anni di Meloni, la signora in grigio
Dopo ventiquattro mesi, il governo può vantare risultati scarsi. L’unica propaganda efficace è sui migranti. Per il resto rimane la denuncia di “complotti” e la retorica del “noi contro loro”
Il giro di boa dei 24 mesi il governo di Giorgia Meloni, il primo guidato da una donna ma anche il primo guidato dalla leader di un partito in continuità diretta con il Msi, ha il colore più inaspettato che ci si potesse immaginare, vista soprattutto la fiamma di partenza: il grigio. Sarà per questo che martedì scorso, in attesa di celebrare il secondo anniversario a Palazzo Chigi (giurò il 22 ottobre ’22), nelle sue comunicazioni al Parlamento in vista del Consiglio europeo, la premier si è presentata vestita di rosso: per dare giusto un po’ di colore all’insieme sbiadito. Non l’ha aiutata nemmeno il battesimo dell’accordo per deportare i migranti in Albania, annunciato la prima volta a ottobre 2023. La prima nave è partita semivuota dal largo di Lampedusa: a bordo 16 persone (costo solo del trasporto stimato in 250 mila euro), di cui 4 (si è scoperto dopo) non dovevano partire e le restanti 12 sono state poi rispedite in italia perché non potevano essere trattenute (lo ha stabilito il Tribunale di Roma). Un bel compleanno governativo. Con i complimenti di Edi Rama.
Il resto è noia o sospetto di complotti. Nel governo che lavora alla Manovra, per dire, una delle misure che fa più vertigine è la stabilizzazione del taglio dell’Irpef introdotto dal governo Draghi, o la spending review sui ministeri immaginata dal Tesoro , o le nuove baruffe sulla tassa agli extraprofitti bancari, o ancora l’ipotesi di eliminare 412 detrazioni fiscali e recuperare un miliardo, in un documento che ne vale circa 20, di cui 9 finanziati in deficit (l’anno scorso erano 24, di cui in deficit 16). Non esattamente da strapparsi i capelli per l’emozione – tanto più adesso che l’Istat, nonostante i proclami, ha visto al ribasso dello 0,2 per cento la crescita nel terzo trimestre dell’anno e conferma che oltre trecentomila nuclei familiari fragili sono rimasti esclusi dal nuovo assegno di inclusione, dopo la fine del reddito di cittadinanza.
E infatti anche le gazzette più allineate riportano depressione e scoramento nelle più alte sfere tra via della Scrofa e Palazzo Chigi. Si festeggerà con Atreju al Circo Massimo a dicembre, ad arrivarci. Mentre non c’è l’ombra di una visione per il futuro. Se non economica, almeno politica. Perché è vero che il Time, un mese fa, ha esaltato le virtù «proteiformi» e «multiformi» della premier italiana, che in effetti eccelle nel farsi Giano Bifronte. Ma anche presentare come un successo planetario la designazione europea di un commissario italiano (Raffaele Fitto), sia pure dopo il mancato voto dei Fratelli d’Italia a Ursula von der Leyen per la rielezione a presidente della Commissione, è operazione fruttuosa fino a un certo punto: la notizia, semmai, sarebbe stata escludere l’Italia, che è tra i Paesi fondatori dell’Ue.
Paradossalmente, l’unico vero risultato che adesso Meloni può sbandierare (e infatti lo fa) riguarda i migranti ed è il calo degli sbarchi. A ottobre 2024 sono 53 mila, cioè sono tornati ai livelli del 2021 (49 mila), mentre erano arrivati a 75 mila a ottobre 2022, e a 139 mila a ottobre 2023. Certo, niente a che vedere coi tempi di Conte, Salvini e decreti Sicurezza, quando nella ributtante gara contabile si era arrivati persino a 8 mila. Ma comunque che sia un risultato delle politiche di questo governo è difficile a dirsi. Già 12 mesi fa erano in vigore le norme anti-ong, così come tutte le discusse normative relative ai rimpatri (post strage di Cutro), già fatte l’estate del 2023 le intese con Libia, Tunisia, Egitto, eppure gli sbarchi non decrescevano. C’è insomma appena il sospetto che sia la situazione internazionale a essere mutata. Il genere, in ogni caso, fa parte di quello comunicativamente più efficace del governo. Il capitolo brutti sporchi e cattivi. Quel filone che va dal decreto Rave, il primo di questo governo varato il 31 ottobre 2022, fino al ddl Sicurezza di questo settembre, che arriva ad aumentare le pene per chi fa resistenza passiva in carcere. Passando ad esempio per il decreto Caivano, quello in teoria per il contrasto al disagio giovanile, dopo il quale, secondo il rapporto Antigone, si è toccato un picco di minori in carcere: 1.143 casi nel 2023, la cifra più alta negli ultimi 15 anni.
E le riforme, si dirà. Giusto dodici mesi fa, il 5 novembre 2023, Giorgia Meloni varava in Consiglio dei ministri la «madre di tutte le riforme», il disegno di legge per introdurre il premierato: ebbene, dopo la prima approvazione in Senato, a giugno, la norma è stata prudentemente accantonata, in coda ai lavori in commissione Affari costituzionali della Camera, vale a dire appoggiata su quello che Giorgio Napolitano da presidente della Repubblica avrebbe chiamato «binario morto». Accanto, diciamo, alla riforma fiscale che, come dicono i meloniani ogni volta, «l’Italia aspettava da 50 anni», ma che per essere operativa ne dovrà attendere per lo meno un altro. Al pari del premierato, insomma.
Anche il padre della riforma costituzionale, dal canto suo, non se la passa benissimo. Il consigliere giuridico di Palazzo Chigi Francesco Saverio Marini, il nome che con un blitz la maggioranza voleva mandare alla Corte costituzionale in tempo per la discussione, a novembre, del ricorso delle Regioni contro l’autonomia differenziata, è rimasto congelato, bloccato a metà dall’Aventino stavolta compatto delle opposizioni, che ha costretto la maggioranza a votare scheda bianca. Né si sa che fine farà la stessa riforma Calderoli – per la Lega è, a sua volta, la madre di tutte le riforme – stretta a tenaglia tra la guerra dei Lep, cioè la definizione dei livelli essenziali di prestazione e dei fondi per finanziarli, e il referendum abrogativo su cui la Consulta si dovrà pronunciare a inizio anno e che potrebbe diventare la pietra d’inciampo degli equilibri della maggioranza, la botola dentro cui precipita il resto.
Proprio nell’ottobre scorso, impossibilitata a presenziare ai festeggiamenti al Teatro Brancaccio per impegni internazionali e per situazione personale (la rottura con Andrea Giambruno, appena annunciata), Giorgia Meloni celebrò con un videomessaggio il primo anno di governo. Sono parole istruttive, attualissime, anche a riascoltarle adesso. «Noi siamo un nemico da abbattere con qualsiasi mezzo perché siamo uno specchio per la loro meschinità», diceva la premier, «abbiamo il coraggio e la pazienza per scardinare a una a una le incrostazioni di potere che hanno affogato questa nazione, per riformare nel profondo quello che va riformato senza guardare in faccia a nessuno. E badate bene: questa è anche la ragione per la quale la cattiveria verso di noi, i metodi che si utilizzano per tentare di indebolirci hanno raggiunto vette mai viste prima».
Non c’era stato ancora l’impiegato spione di Banca Intesa, un anno fa. Non era ancora emerso il caso Striano. Ma, ecco, sintetizzano a meraviglia l’immobilità dentro cui è avvolta l’azione di governo, ravvivata l’anno scorso come questo dalla retorica di noi contro loro. In cui il noi è sostanzialmente un io e il loro è una collettività senza volto, senza identità, mai chiarita o specificata. Perché, ecco, magari il premierato non vedrà mai la luce, ma un punto è già sicuro: la «non ricattabilità», a prescindere. Sin dal giorno zero, quando ancora prima della formazione del governo, Meloni lanciò questo messaggio, in quel momento principalmente a Silvio Berlusconi, ma poi erga omnes. Un clima complottista del quale il ministro della Difesa Guido Crosetto risulta a tutt’oggi più efficace interprete. Mentre duole notare che l’unico ministro che si sia finora azzardato a utilizzare quella stessa espressione, «non ricattabile», è l’ex capo della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Una delle vere note di colore di questo governo, ormai perduta e tornata a rannicchiarsi nel mare magnum di Telemeloni.