La Corte Costituzionale, con due sentenze, ha invocato una legge sul suicidio assistito. Ma l’appello è rimasto lettera morta per la contrarietà della maggioranza. E al Numero Bianco dell’associazione Coscioni sono arrivate oltre tremila chiamate di cittadini che vogliono avere informazioni

Esiste il diritto di morire o il dovere di vivere? A questa domanda, che propone due opposti scenari, non c’è una risposta univoca. Eppure, due parole all’apparenza antitetiche come suicidio assistito o fine vita possono essere tenute insieme in nome della Costituzione. È ciò che, a più riprese, ha fatto la Corte Costituzionale, chiedendo una legge sul fine vita a partire da due sentenze. Con l’ultima, la 135 del 2024, ha ribadito la validità dei requisiti per richiedere il suicidio assistito, legittimati pochi anni prima dalla sentenza 242 del 2012: l’irreversibilità della patologia, la presenza di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili dal paziente, la dipendenza dello stesso da trattamenti di sostegno vitali e la sua capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta di condizioni che vanno verificate dal sistema sanitario nazionale e approvate dal comitato etico territoriale, ma che definiscono la complessa situazione in cui versano molti malati gravi per i quali resta solo una speranza: morire dignitosamente.

 

Talvolta la dignità viene impugnata nei tribunali, dove i pazienti ricordano che anche la vita, come i trattamenti medici, può essere sproporzionata se a scandirla è una sofferenza senza fine, come spiega Matteo Mainardi dell’Associazione Luca Coscioni: «A chi si rivolge a noi, spieghiamo che ci sono procedure in Italia che rendono possibile l’accesso al suicidio medicalmente assistito, ma non tutte le persone hanno l’energia per fare ricorso né, in alternativa, possono permettersi un viaggio in Svizzera. Solo nell’ultimo anno, al nostro Numero Bianco circa 3000 persone hanno chiesto informazioni sulle procedure che si possono attuare in Italia».

 

Eppure le sentenze della Corte Costituzionale non fanno una legge, e nel vuoto del nostro ordinamento, l’iter nelle Asl non sempre è lineare, puntualizza Mainardi: «La difficoltà per le Asl è che non esiste un protocollo interno che dica alla persona come procedere e molte si trovano impreparate. Pertanto, piuttosto che prendere l’iniziativa, aspettano la sentenza di un tribunale». Pochi mesi fa, la Corte Costituzionale ha ribadito la necessità di una legge rivolgendosi al Parlamento, dove l’urgenza che un malato terminale sente su di sé si scontra con la lentezza dell’iter di discussione della proposta del Pd: «In due anni, il Parlamento ha fatto davvero poco. Nel primo anno ha ignorato quello che chiedeva la Corte. Nel secondo, invece, le due commissioni deputate, Sanità e Giustizia, si sono riunite cinque volte facendo solo tre sedute di audizione. Cinque audizioni da aprile a maggio significa che, in tutto quest’anno, i commissari ne hanno discusso per cinque ore». Malgrado lo spiraglio aperto dalla Pontificia accademia per la Vita con un vademecum che ribadisce «mediazioni sul piano legislativo», a diluire i tempi una valanga di audizioni richieste con associazioni conservatrici e di area cattolica. Così i Palazzi di fatto arginano una richiesta che viene dai cittadini, come quando nel 2022 la Consulta bloccò un milione e 200mila firme che chiedevano un referendum sull’eutanasia legale. A farlo, in quel caso, erano stati migliaia di giovani.