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Giorgia Meloni si fa Caimana: adesso ha la toga per nemica
La premier entrò in politica dopo l'omicidio di Borsellino, doveva chiudere trent'anni di guerra berlusconiana tra centrodestra e giudici. invece in due anni ha moltiplicato gli scontri. Ora siamo alla partita finale
Alla fine la foto dell’anniversario, l’istantanea dei due anni di governo, invece che ritrarre Giorgia Meloni e le sue 59 slide, finisce dritta dritta sulle spalle di tre uomini: i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Mantovano, che, tra facce scure e nervosismi, al termine di un lunedì da dimenticare sono costretti a esporre in fila sul tavolone delle conferenze stampa di Palazzo Chigi i cocci di quello che doveva essere il decreto-rivincita contro i giudici cattivi del Tribunale di Roma che avevano rispedito in Italia i primi migranti deportati in Albania, ma che alla fine, previa lunga e invisibile mediazione con il Quirinale, è diventato una mera lista: la lista per decreto dei Paesi sicuri. Una norma che i giudici potranno comunque disapplicare – come prima – perché la giurisdizione europea (e quindi la sentenza della Corte di giustizia Ue) resta sovraordinata sulle leggi italiane, dentro e fuori quel flop ampiamente annunciato che è l’accordo con l’Albania per i Centri di permanenza e rimpatrio: un fallimento talmente grande che in questi giorni, con il pellegrinaggio navale dei 16 poveri cristi, s’è solo vista la punta dell’iceberg. Insomma, mentre Meloni si sottraeva con la scusa dell’assenza di Tajani (il leader di Fi, mai tanto considerato nell’intera carriera) per rifugiarsi in un rassicurante video-reel sul compleanno governativo, a guardare in faccia il Guardasigilli Nordio, il ministro dell’Interno Piantedosi, il sottosegretario Mantovano che illustravano il provvedimento frutto di quello che è stato definito un «parto difficile», è tornato in mente il detto antico che i più ricordano in bocca a Bettino Craxi nel 1983: «I pifferi di montagna andarono per suonare e tornarono suonati». E suonati, più che altro, da se stessi.
C’è, beninteso, persino in ciò, un elemento in comune con il berlusconismo. Anche il Cavaliere, negli anni più gloriosi delle leggi ad personam, s’intestardì con le liste e con provvedimenti che magari non stavano in piedi già alla prima occhiata, ma di cui si parlò ugualmente per mesi. Per stare solo agli ultimi, ricordiamo gli insuperati lodo Schifani e lodo Alfano, per la protezione delle alte cariche dello Stato, entrambi poi bocciati dalla Corte Costituzionale, o il maestoso lodo Alfano costituzionale, di cui si sono più semplicemente perse le tracce nel bosco. Degne di una tela di Penelope furono le liste dei reati che potevano essere esclusi o inclusi dalla nuova normativa sulle intercettazioni, di cui si discusse invano per il tempo omerico di una intera legislatura. O ancora, su tutte, l’indimenticabile aggettivazione che il povero Guardasigilli, sempre Alfano, apponeva ogni sei mesi alla riforma della giustizia che portava in giro nella forma di una carpetta, una cartellina: «epocale» disse in ultimo, senza che mai questa asserita rivoluzione delle leggi vedesse nella realtà la luce.
Farà mica anche Nordio, la fine di Alfano? Due anni fa, al momento sacro del giuramento, lo si sarebbe escluso, ma il dubbio a questo punto è lecito. Specie dopo aver letto, l’estate passata, la biografia a puntate di Winston Churchill, scritta dal Guardasigilli di suo pugno e pubblicata a puntate sul “Foglio”, ma stranamente nell’indifferenza generale.
È, comunque la si guardi, un punto imprevisto di connessione, questo sulla giustizia, tra il berlusconismo e il melonismo. Tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni. Tra il Caimano e, visto l’andazzo, la Caimana. Tra il Cavaliere, che scese in campo sull’onda di Tangentopoli, contro i giudici «comunisti» da sempre e per statuto, e la leader di Fratelli d’Italia, che cominciò a fare politica dopo l’omicidio di Paolo Borsellino, in un partito che, per dire dell’impronta culturale originaria, il 17 ottobre 1992, sei mesi dopo l’uccisione del magistrato simbolo della lotta alla Mafia, scese in piazza a Roma con decine di migliaia di guanti bianchi – li avrebbe sventolati anche in Aula alla Camera – a simboleggiare le Mani pulite e il «corteo degli onesti», gridando fra l’altro: «Dei ladri di regime non ne possiamo più, chiudiamo via del Corso e piazza del Gesù».
E va bene che poi missini e post missini dal 1994 in poi sono andati al governo proprio col Cavaliere di Arcore, e che in tutto questo tempo tante cose sono cambiate. Ma, per dirla con il sospiro della primogenita Marina in una lettera al Giornale, un mese dopo la morte del padre: «Non doveva finire con Berlusconi la guerra dei trent’anni?».
Ecco, quanto pare: no, non doveva finire. È stato chiaro domenica scorsa, quando la premier ha deciso di pubblicare sul proprio profilo Instagram lo stralcio di una mail del sostituto procuratore della Cassazione Marco Patarnello, argomentando così l’attacco alla democrazia. Ma in realtà molto prima di una settimana fa. La rottura ufficiale di quella che era stata presentata come una discontinuità rispetto al berlusconismo – e forse discontinuità non è stata mai – il primo attacco ai giudici, da parte di Giorgia Meloni, arrivò sotto forma di «fonti di Palazzo Chigi» già nel luglio 2023. Fu allora che, scossa nel giro di 48 ore dalla notizia pubblicata dal Domani dell’indagine per falso in bilancio a carico della ministra del Turismo Daniela Santanché e dalla richiesta di imputazione coatta da parte del gip (la Procura voleva archiviare) per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, sotto indagine per la rivelazione di segreti d’ufficio nell’ambito della vicenda dell’anarchico Cospito, la premier fece filtrare la domanda retorica: «È lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee».
Eccoli di nuovo, i giudici comunisti. A Palazzo Chigi, undici mesi prima della campagna elettorale per Bruxelles, senza timore di ridicolo si parlò di «giustizia a orologeria».
Fine della asserita tregua, inizio ufficiale della berlusconizzazione, a partire dalla blindatura dei ministri coinvolti, che infatti sono ancora lì. E soprattutto: giurando una accelerazione della riforma della giustizia, a partire dalla separazione delle carriere e con relativa duplicazione del Csm. Quindici mesi dopo siamo più o meno allo stesso punto: approvata nel frattempo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, da Palazzo Chigi si agita di nuovo lo sprint per la riforma della magistratura. L’ira funesta della Meloni di allora fa il pari con la premier descritta oggi dai Fratelli d’Italia «furente come non la vedevamo da anni». Pare un copione.
In entrambi i casi la risposta è il rilancio della separazione delle carriere, che oggi viene ancora più facile visto che c’è ben poco da rilanciare, permanendo sul binario morto di quella che Meloni ha chiamato «la madre di tutte le riforme», ossia il premierato, essendo bloccata da ricorsi e proposte di referendum quella cui tiene assai meno, l’autonomia differenziata, e non essendoci nulla di esaltante (anzi) nella finanziaria.
Si dice dunque che riforma della magistratura, ora in commissione Affari costituzionali della Camera, potrebbe avere uno sprint a fine anno, dopo la manovra. Mentre la Consulta resta al centro dei pensieri, e non a caso viste le tante volte in cui viene evocata la possibile incostituzionalità dei provvedimenti: nell’immediato, dopo il fallito blitz per eleggervi il consigliere giuridico di Palazzo Chigi Francesco Saverio Marini, le Camere si riuniranno in seduta comune di nuovo il 29 ottobre. E i risultati di quella votazione non saranno indifferenti, perché il 12 novembre la stessa Corte costituzionale si riunirà per discutere in udienza il ricorso delle Regioni contro l’Autonomia differenziata. A dicembre scadranno altri tre alti giudici, mentre è ancora a dicembre, il 20, che è prevista la sentenza per il processo a Matteo Salvini sul caso Open Arms, per aver impedito da ministro dell’Interno lo sbarco di 147 migranti nel 2019.
In tanto circolare di questioni politico-giudiziarie, permane però una profonda differenza tra berlusconismo e melonismo. Il Caimano, in maniera peraltro sempre più scarnificata, pensava ai suoi processi. La Caimana, assente questa spinta motivazionale, agita la guerra coi giudici perché ha bisogno di un nemico cui opporsi, di una lotta viva che distolga l’attenzione dalla distesa di iniziative mezze morte tra cui si muove. Il giudice comunista, insomma, ha lo stesso valore della legge sulla Gpa resa reato universale ma solo in Italia (qualsiasi cosa significhi). Questioni identitarie, sulle quali smuovere sentimenti, a costo di provocare nella realtà quelle che vengono vissute come danni collaterali.
Mentre persino Delmastro, in una intervista di questi giorni, ha ammesso che la questione Cpr in Albania è un pasticcio (È un pasticcio? «Sì, ma», eccetera) e addirittura uno Studio di Euromedia Research pubblicato sulla “Stampa” in realtà a fare le somme dice che il 53,7 per cento degli intervistati dà della costruzione dei centri al di là dell’Adriatico un giudizio negativo: il 33,8 la reputa una scelta «molto dispendiosa», il 19,9 per cento «sbagliata e inutile». Cioè oltre la metà degli italiani non gradisce quella che Meloni riteneva l’unica iniziativa da sbandierare in tema immigrazione. Un argomento del quale gli italiani, dicono i sondaggi, ricominciano a interessarsi ora dopo la pandemia, ma è che è comunque al sesto posto, dopo le tasse e il cambiamento climatico. Ecco dunque che, anche a livello della comunicazione del governo, la strada della lotta ai migranti si disperde in favore di un attacco ai giudici forse mediaticamente più efficace. Con il guardasigilli Nordio che definisce «abnorme» la sentenza dei giudici di Roma e a “Repubblica” dice che i magistrati devono limitarsi a essere «la bocca della legge». Con il presidente del Senato Ignazio La Russa che parla di una «zona grigia» tra politica e magistratura da chiarire magari attraverso una (nuova!) «riforma costituzionale», e che si toglie persino lo sfizio di un revisionismo: «Eravamo al fianco di Mani Pulite. Forse oggi possiamo dire: anche troppo». Di questo passo, per dirla col filosofo, la storia rischia di ripetersi: il problema è che già con Berlusconi si trattava di una farsa