Il commento
L’anomalia del bipolarismo all’italiana
Le divisioni in politica interna e sulle questioni estere, specchio del bipartitismo imperfetto
Da ultimo, ma non ultimi, sono arrivati il voto sul cda della Rai e la fuoriuscita di Italia viva dalla compagine che sostiene Andrea Orlando in Liguria. In un caso e nell’altro, a cambiare gli schemi tattici concordati o a mettere veti su quelli che considera come avversari è stato Giuseppe Conte, regista di un asse con Avs che ha generato più di un problema a Elly Schlein, «testardamente unitaria» a dispetto degli sgambetti dei suoi riluttanti partner di coalizione.
Un altro voto, quello all’Europarlamento sulla risoluzione riguardante la revoca delle restrizioni sulle armi occidentali fornite all’Ucraina, ha mostrato una serie di spaccature tra le formazioni italiane della maggioranza di governo come pure fra quelle di opposizione – e, con riferimento al Partito democratico, pure alcune divisioni interne.
La frammentazione elevata e la frequente divergenza di opinioni, con ricomposizioni trasversali su alcuni temi che vanno al di là dei confini degli schieramenti di destra-centro e sinistra-centro, non rappresentano tuttavia una novità. Anzi, tutt’altro; e si potrebbe perfino dire, con un ossimoro, che costituiscono una sorta di anomala normalità, o di abituale eccezione.
Accade, dunque, che specialmente sulle questioni di politica estera (e ancora di più in presenza degli odierni conflitti, dall’Europa orientale al Medio Oriente) le alleanze partitiche nostrane si disarticolino, seppure non fino alle estreme conseguenze, generando sempre e comunque fibrillazioni a ripetizione.
Si tratta della riprova di come il bipolarismo all’italiana venga immancabilmente vissuto come più o meno obbligato. Nella permanente assenza del bipartitismo – ancorché «imperfetto», secondo la famosa etichetta coniata alla metà degli anni Sessanta da Giorgio Galli – si è andati verso il bipolarismo, pure quello assai lontano dalla “perfezione” e dall’optimum. In buona sostanza, esso pare avere attecchito più in vari settori dell’elettorato che nei gruppi dirigenti, per molti dei quali un riflesso condizionato di tipo storico o gli interessi di posizionamento spingono, anche in maniera inconfessata, verso una mentalità proporzionalista. E molto pesa il dato di fatto per cui i partiti italiani si trovano immersi in una campagna elettorale (davvero) permanente – e, pertanto, risultano sempre pronti a cercare di strappare un voto in più ai loro “alleati”.
Ecco perché, da una parte e dall’altra, gli attori del paesaggio politico, sul piano dell’offerta “ideologica” e programmatica e del mercato elettorale, rimangono volutamente protagonisti di «coalizioni incoerenti», per citare la formula del politologo Angelo Panebianco, da lui utilizzata anche in una recente intervista a L’Espresso. Oppure si presentano come quelli che potremmo chiamare dei grandi «gruppi misti» (con legami interni deboli).
Il bipolarismo all’italiana ha funzionato decisamente meglio quando le coalizioni avevano un leader riconosciuto, almeno in linea di principio (Silvio Berlusconi vs. Romano Prodi). A conferma che non basta una legge elettorale per creare bipolarismo anche se forza i partiti in tale direzione. Mentre ciò che serve è anche, e soprattutto, una «costituzione materiale» fatta di leadership unitaria e di condivisione delle linee di fondo, pur nel pluralismo delle idee.