Il grande scrittore americano è tornato con l’ultima storia di Frank Bascombe. E l’addio al suo celebre personaggio ne ha dentro lo sguardo maturo, l’ironia sottile, la profonda conoscenza dell’animo umano. La gioia di scrivere: “E dire che volevo essere un marine”

è stato il primo a vincere con lo stesso romanzo i due premi più prestigiosi e ambiti negli Stati Uniti, il Pen/Faulkner e il Pulitzer. È stato tra gli autori che con più lucidità e forza narrativa hanno cercato di dare un’epica alla classe media americana - nel tentativo, forse, di raccontare quel che succede dopo il “sogno americano”. Richard Ford è stato, ed è ancora oggi naturalmente, uno dei più grandi scrittori al mondo e il suo ritorno in libreria con “Per sempre” (Feltrinelli 2024) segna pure il ritorno di Frank Bascombe, che conosciamo già per la fortunata serie iniziata con “Sportswriter” e “Il giorno dell’indipendenza” (Feltrinelli 1992 e 1996).

Ford, è tornato a scrivere di Frank Bascombe - già protagonista di quattro suoi romanzi. Perché?

«Per tanti motivi, in effetti. Soprattutto avevo l’ambizione, già negli anni di “Sportswriter”, di scrivere una lunga serie di romanzi che avessero uno stesso protagonista. Molto presto - e anche in questo caso, già negli anni di “Sportswriter” - mi sono reso conto che Frank poteva darmela sul serio, questa opportunità. L’opportunità di sfidare me stesso, cercare d’essere un bravo scrittore».

Non poteva cogliere questa opportunità anche con gli altri suoi libri? Con i racconti o, per esempio, con “Incendi”? (Feltrinelli, 1991).

«No. I racconti, come lo stesso “Incendi”, sono storie brevi e credo che per avvicinarsi alla grandezza serva un romanzo lungo - o una serie di romanzi -, un romanzo in cui si possano raccontare adeguatamente spaccati di vita che abbracciano diversi anni: scrivendo cinque romanzi su Frank ho potuto scrivere un’intera esistenza».

Che relazione ha con lui?

«Non ho alcuna relazione con Frank. È solo un personaggio di finzione. Lui è lo strumento, la lingua è la melodia che viene fuori quando decido di suonarlo. Ecco tutto. Capita che i lettori mi chiedano che faccia Frank tra un romanzo e l’altro, la risposta è assolutamente niente. Frank esiste solo quando lo scrivo. Ha una vita solo se gliela do io. Non chiederebbe a un musicista cosa faccia il suo violino quando non lo suona, giusto?».

La vita di Frank, la vita che lei ha scritto, è stata molto segnata dalla paternità - Ralph, il primogenito, morto da bambino e Paul adesso, in questo libro, affetto da Sla. Perché una vita così dura in tal senso?

«Non è dura: è la vita. Essendo il protagonista di un romanzo, dovevo pur dargli delle sfide. Mettere ostacoli da superare davanti ai personaggi è esteticamente piacevole».

Suona un po’ sadico.

«Ma no, certo che no! Sarei un sadico se intendessi arrecare del dolore a una persona che esiste realmente, ma, di nuovo, Frank non esiste veramente. E so bene che alcuni miei colleghi parlano dei propri personaggi come esistessero davvero, ma sono idiozie. Solo un tentativo di romanticizzare loro stessi».

Tornando a Frank e al suo rapporto con la paternità: l’impressione che si ha, leggendo la serie, è che Frank sia anzitutto una persona e poi, e solo poi, un padre.

«È così - e non vale solo per Frank, per tutti! I miei genitori erano sposati già da quindici anni quando nacqui io. Avevano delle vite, sogni e desideri, avevano una relazione che prescindeva dalla mia esistenza. Siamo persone, prima di tutto».

Da bimbi, però, spesso crediamo che i nostri genitori altro non siano che, appunto, i nostri genitori, e che aldilà di questo ruolo non esistano. Ricorda il momento in cui ha compreso che non era così?

«Avevo sei anni, ero a New Orleans con i miei genitori per una vacanza. Avevamo appena finito di cenare e loro avevano bevuto parecchio, così, dal nulla, al momento di alzarci da tavola, presero a discutere: uno voleva tornare in hotel, era stanco, e l’altra voleva fare una passeggiata per la città. La discussione degenerò in strada: urla, insulti - avevano bevuto parecchio. E mio padre d’un tratto spinse mia madre contro il muro proprio davanti al ristorante. Non voleva farle del male, ma fermarla. Quella notte, poi, tornati in albergo, tutti e tre nello stesso letto, sentii mio padre piangere. Intuii subito il motivo: si era reso conto d’aver fatto qualcosa di brutto davanti a suo figlio e se ne vergognava. Quando aveva spinto mia madre non ci aveva pensato mica, che io fossi lì - erano talmente tanto presi da quella loro discussione che si erano dimenticati di me. Ecco, lo capii quella sera».

Ancora sul rapporto genitori-figli. Per molti figli arriva il momento in cui i ruoli si invertono e devono accudire i genitori. A Frank questo non può accadere. A lei è successo?

«Non so quanto sia frequente in Italia e se sia un tratto culturale, ma negli Stati Uniti non capita così spesso - almeno secondo la mia esperienza. Di certo a me non è successo. Mio padre morì nel 1960, quando avevo sedici anni, e mia madre nel 1974, a causa di un tumore per cui fu ricoverata per molto tempo. In quel periodo, quando entrava e usciva dagli ospedali, mi disse che se le sue condizioni fossero peggiorate in maniera tale da non poter fare niente non voleva che la portassi a casa mia: disse che non voleva la sistemassi in una stanza lì, in attesa che morisse. Non voleva che la vedessi e non voleva essere un peso. E così feci: peggiorò, poi morì. Ma non la portai in casa mia».

Avevate un bel rapporto?

«Sì, direi di sì. Non stretto, forse. Il primo giorno di college, ad esempio, mi accompagnò al campus: andammo a cena assieme, lo girammo. Poi, il giorno dopo, la portai in stazione, lei mi salutò dal finestrino del treno, io feci lo stesso dalla banchina e se ne andò. La sentivo ogni domenica, stavamo al telefono e chiacchieravamo, ma non ho mai sentito l’obbligo di far altro, non ho mai creduto che in quanto figlio avessi degli obblighi del genere».

Torniamo a Frank. Dice che ultimamente pensa spesso alla felicità.

«Nel 1981, dopo due romanzi non accolti granché bene, iniziai a pensare a come cambiare il mio modo di scrivere, di fare letteratura. Mia moglie mi disse: perché non scrivi di qualcuno felice, per una volta? Non sapevo che pesci prendere. Come si scrive di qualcuno felice?, mi domandavo. Mi sembrava assurdo. La frase mi rimase in testa, però, e così cominciai a scrivere “Sportswriter”: credo che Frank sia un uomo felice. Nonostante questa frase sia sorta più di quarant’anni fa, l’ho inserita in un libro solo adesso. E l’ho fatto proprio perché ultimamente penso alla felicità».

Cosa la rende felice?

«Rendermi utile».

Un periodo in cui era felice e lo sapeva?

«Oh, tantissimi! Ho avuto una vita molto fortunata, davvero. Nulla a che fare con le mie abilità. Intendo che sono stato proprio fortunato. Punto. Ad ogni modo, se mi chiede quando sono felice e consapevole d’esserlo le dico: quando scrivo. Quando scrivo, difatti, spesso mi fermo e penso: stai facendo ciò che ti piace e non importa come finirà questo paragrafo, questo libro, questa serie di libri, importa questo momento e basta. C’è, molto spesso, una grande ansia circa il raggiungimento di un obiettivo, e questo ci fa perdere il piacere del processo».

Scrivere, dunque, le piace. Non lo trova faticoso?

«Può essere faticoso, difficile, certo, ma mi piace tantissimo! Non volevo fare lo scrittore da ragazzino, non ero uno di quelli che stava sdraiato in camera sua sul letto a immaginarsi scrittore, leggere ancora, ancora. Volevo essere un marine, poi diventare un agente dell’FBI, poi un poliziotto. Alla scrittura ci sono arrivato solo perché prima ho fallito in tutto il resto».

Ford, questo libro è un addio a Frank Bascombe?

«Sì, sì, lo è. Non voglio più scrivere di lui, non credo valga la pena farlo. E poi sono grande, ormai, non so se la mia sia un’età interessante. Quando ero giovane e vedevo una persona anziana pensavo sempre che non potesse avere poi granché da raccontare. Quindi adesso perché dovrei farlo io?».

Non crede che invece la sua età sia interessante?

«No, non credo lo sia. E non intendo dire che non valga la pena d’essere vissuta, assolutamente: non intendo questo. Dico solo che non credo di aver tanto da dire su questa età. Scrivere e pubblicare un romanzo significa, tra l’altro, dire alle persone: okay, fermatevi, smettete di fare quello che stavate facendo e leggete il mio libro. È una richiesta grossa, il tempo degli altri va occupato con saggezza».

Ma lei è Richard Ford!

«Non per me. C’è una frase molto bella e su cui concordo, ma non ricordo chi l’abbia scritta: to myself I am not but a self - per me stesso non sono che un sé. Per i lettori sarò anche Richard Ford, ma per me questo nome ha un significato ben diverso».

Più volte ha sottolineato la sua età, oggi. Ha paura della morte?

«No. Certo, spero di non morire urlando di dolore, ma non temo la morte».

Lei crede?

«Proprio no. Capita che scriva dei pezzi per l’Osservatore romano, cosa che mi piace e mi diverte, e ormai ho una buona confidenza con l’editor con cui lavoro. Qualche tempo fa, dopo aver visto dei dipinti cattolici, gli ho scritto dicendogli che finalmente avevo capito qualcosa che per molto tempo mi era sfuggito. E cioè che uno tra i più forti collegamenti tra arte e religione è che sono entrambi atti dell’immaginazione».