Alla domanda «avresti preferito morire a Gaza?», rispondono tutti di sì. Sono alcuni dei circa centomila gazawi che si trovano attualmente in Egitto, riusciti a fuggire dall’inferno di Gaza dopo il 7 ottobre e prima della chiusura del valico di Rafah. Il Cairo ha raccolto ciò che di loro resta. Le donne, gli uomini, i bambini, le bambine fuggite dalla Striscia sono oggi quel che rimane di un corpo fatto a pezzi, non più in vita ma ancora su questa terra. E su questa terra nessuno ha intenzione di prendersene cura. Nella caotica capitale egiziana i sopravvissuti di Gaza sono invisibili come, d'altronde, tutti i rifugiati che Al Sisi non riconosce come tali: siriani, libanesi, sudanesi e adesso loro, i gazawi. A chi è riuscito ad uscire dalla Striscia è stato concesso un visto estendibile fino ad un massimo di 45 giorni, gli stessi che ha a disposizione qualsiasi turista che entri nel Paese per surfare a Sharm El- Sheikh. Tutte le persone uscite da Rafah e rimaste in Egitto, adesso sono illegali, senza documenti che certifichino il loro essere rifugiati, anche se molti di loro erano già profughi dentro la Striscia, non possono lavorare, mandare i propri figli a scuola, curarsi negli ospedali pubblici. «Siamo intrappolati qui, Cairo per noi è un limbo, una prigione da cui non possiamo uscire, ma non possiamo neanche tornare indietro. Siamo qui senza poter fare niente», racconta Jumana Shahin, coordinatrice gazawi dell’ong italiana Acs, insegnante di inglese, project manager e fixer. È fuggita dalla striscia lo scorso 20 aprile lasciandosi alle spalle la madre, la sorella, la tomba del padre, la propria casa a Gaza City, la propria vita.
«Non ho scelto di lasciare la Striscia, sono stata obbligata a farlo. Quando ho attraversato il valico di Rafah, ho pensato che quello sarebbe stato l’ultimo momento in cui avrei sentito il rumore dei droni, delle bombe, l’ultima volta che avrei visto la sofferenza di persone indifese. E non volevo lo fosse. Ho sperato fino all’ultimo che al controllo di frontiera mi respingessero, che mi facessero tornare indietro. Sapevo che non era possibile, avevamo pagato tantissimi soldi quindi ci avrebbero fatti passare, ma continuavo a sperarlo con tutta me stessa. Sapevo di dover uscire da quel valico, ma il desiderio di non andarmene mi toglieva il fiato, avevo preso una decisione contro la mia volontà. Non ho potuto dire addio a mia madre e a mia sorella, le ho lasciate da sole», si asciuga una lacrima che le scivola sulla guancia, poi continua: «Ho lasciato da sole tutte le persone con cui ero sfollata. Sono morta da quando ho lasciato la mia casa, essere ancora in vita non significa essere davvero ancora viva». Jumana adesso sta in un appartamento a Nasr City, un sobborgo della capitale dove normalmente gli affitti sono più economici rispetto al centro del Cairo, ma per i palestinesi i prezzi sono triplicati. Un quartiere che è vicino all'aeroporto. Ad ogni aereo che sente decollare, Jumana smette di respirare, come lei tutti i palestinesi qui. Chiusa tra le mura di una casa che non è la sua, Jumana vive con altre dieci persone: il marito, la figlia Sophia di tre anni e otto membri della famiglia del marito. Ognuno di loro ha pagato 5 mila dollari per uscire da Gaza. «Se sono ancora qui – racconta – è solo per mia figlia, ma se ci fosse l’opportunità di tornare a Gaza, anche solo per missioni umanitarie di poche settimane, lo farei subito. Quella che sto vivendo qui non è vita, sono sospesa nel ricordo di ciò che ho vissuto e che la gente a Gaza continua a vivere ogni giorno. Mi tormentano i ricordi e niente mi permette di distrarmi, non posso lavorare, portare mia figlia all’asilo, studiare, spostarmi, viaggiare, andare a trovare mia sorella in Europa. Conto i giorni e basta. Intanto la gente di qui vive la propria vita normalmente anche se a separarli da Gaza è solo un checkpoint. Io non ho niente da condividere con loro». Da quel checkpoint la madre e la sorella avevano deciso di uscire per ricongiungersi a Jumana, ma tre settimane dopo aver iniziato a raccogliere i soldi necessari, il valico è stato chiuso. «Sono tornate a Deir Balah, nella loro casa, una delle poche che non è ancora stata distrutta dall’aviazione israeliana. Con loro non riesco a parlare, anche le poche volte che la connessione funziona non ce la faccio a sentire le loro voci, è troppo doloroso, essere qui senza nessuno della mia famiglia rende insostenibile il mio bisogno di tornare». Nariman Nasser prova lo stesso bisogno, ma lei, la madre e le sorelle non può far a meno di sentirle, ogni giorno, in ogni istante in cui la connessione riesce a metterle in contatto.
«Ho lasciato a Gaza mia madre, le mie sorelle, i miei fratelli, i miei zii e le mie migliori amiche. Ho lasciato la mia casa di fronte al mare, il luogo in cui potevo respirare. Da quando sono al Cairo ho problemi respiratori, mi manca l’aria e so che non è un problema fisico ma psicologico», racconta. Nariman era un'insegnante di francese dell’università Al Aqsa a Gaza City. «Avevamo appena comprato casa. Era bellissima, come la mia vita a Gaza. Avevo il mio lavoro, mio marito il suo, era una vita semplice ma era la mia vita. Qui in Egitto niente è più mio, niente mi appartiene», racconta tra i singhiozzi sul divano della casa che la ospita. Accanto a lei Adam, il figlio più grande, si preoccupa di porgerle dei fazzoletti, mentre Zain, di nove anni, intrattiene la sorellina Mariam che cerca qualcuno con cui giocare. «I primi giorni qui ho pensato che eravamo fortunati, potevamo fare la doccia, mangiare la carne e le uova. Ma poi col tempo ho realizzato di essere lontana da Gaza e tutti i ricordi mi sono tornati alla mente. Dentro la Striscia ero sempre impegnata, dovevo sopravvivere, qui non ho niente da fare, sono come in prigione, in un limbo, bloccata nel vuoto».
Nariman è uscita dalla Striscia lo scorso novembre, il marito è per metà egiziano e questo ha permesso alla sua famiglia di lasciare Gaza senza dover pagare i trafficanti del Sinai e gli emissari del governo di Al Sisi. «Sono qui grazie a mio marito, sono considerata come qualsiasi altro egiziano, non sono rifugiata. Siamo scappati dalla guerra ma non abbiamo i diritti che dovrebbe avere chi sopravvive a un genocidio. Siamo abbandonati a noi stessi, a nessu- no importa se sei di Gaza e hai perso tutto. E noi dentro questo limbo non riusciamo a realizzare che Gaza non c’è più né possiamo ricostruire la nostra vita qui», continua la donna. «Non sono più la persona di un tempo, sono più fragile, vulnerabile, le più piccole cose mi fanno piangere, e temo non sarò mai più come prima se nessuno mi aiuta. Vorrei poter parlare con una psicologa, ma è impossibile, la terapia è carissima. Se penso al futuro vedo solo nero, allora provo a non pensarci, ma non riuscire a pensare ad un futuro per me e i miei figli vuol dire essere come morta». Il limbo del Cairo, per chi è sopravvissuto, ha lo stesso colore della morte. Raccontarlo, a pochi chilometri dalle fosse comuni di Gaza, sembra quasi un affronto. Eppure, mentre contiamo i morti, ci dimentichiamo dei vivi, abbandonati dall’Occidente così come dal resto dei vicini Paesi arabi. Jumana torna a casa dalla figlia, scorre le immagini di Gaza sul suo cellulare e ripete: «Mi manca tutto di Gaza», poi accenna un sorriso: «Sai qual è la cosa che mi manca di più: me stessa. Sono io quella assente a questa vita, intrappolata nella mia mente, ancora a Gaza, con i miei amici, mia sorella e mia madre».