Un sistema scoperto dai magistrati di Bologna svela una falla nel sistema dei controlli sul fotovoltaico. False dismissioni per rivendere i materiali da smantellare al di là del Mediterraneo

Dove finiscono i pannelli fotovoltaici quando li buttiamo? La domanda è più che mai attuale, visto che l’Italia punta soprattutto sul sole per realizzare la transizione energetica. Il Piano nazionale energia e clima (Pniec), pubblicato nel giugno scorso dal ministero dell’Ambiente, prevede infatti che entro il 2030 vengano installati 131 GW di capacità rinnovabile, di cui 80 GW fotovoltaici. Per farsi un’idea, i 30 GW già installati lungo lo Stivale corrispondono più o meno a 120 milioni di pannelli: che fare di questi moduli una volta arrivati a fine vita? 

Non è un problema del futuro. La vita media di un pannello è di circa 20-25 anni. E i primi quantitativi rilevanti sono stati installati nel 2005, quando entrò in vigore il Conto Energia. Non fa ben sperare il fatto che il nostro Paese si ritrovi nella parte bassa della classifica europea sul riciclo dei rifiuti elettronici (Raee), categoria di cui fanno parte appunto i pannelli. Nel 2023 il tasso in Italia si è attestato al 30,2%, meno della metà dell’obiettivo fissato da Bruxelles (65%), tanto che a luglio la Commissione Europea ha inviato una nota al governo chiedendo spiegazioni. I dati specifici sul fotovoltaico non sono disponibili, ma il paradosso è evidente: mentre da un lato l’Italia, in linea con il Critical raw materials act dell’Ue, ha velocizzato le procedure per aprire miniere dalle quali estrarre minerali strategici per la transizione, dall’altro restiamo indietro sul riciclo di alcuni di questi materiali. 

Ma come dovrebbe essere gestito un pannello a fine vita? Al netto delle differenze tra impianti domestici e professionali (potenza nominale inferiore o superiore a 10 kW), il punto d’approdo non cambia. «L’importante è che i moduli fotovoltaici siano ritirati, trasportati e trattati da soggetti autorizzati in base alla normativa ambientale, e non invece smaltiti dato che sono costituiti da materiali recuperabili», spiega Diego Arbizzoni, co-fondatore e direttore commerciale di Re-Open, società italiana che si occupa della gestione integrata dei rifiuti tra cui i pannelli fotovoltaici. Insomma, il modulo deve infine arrivare a un centro di trattamento che si occupa di recuperare la cornice di alluminio e gli altri materiali come vetro, argento, rame, stagno, indio, gallio, tellurio. 

 

OPERAZIONE BLACKSUN 

La direzione distrettuale antimafia di Bologna è convinta di aver scoperto un’organizzazione impegnata a dribblare queste regole. Il processo deve ancora iniziare, si vedrà dunque come andrà a finire, ma secondo l’avviso di conclusione delle indagini firmato a gennaio del 2022 dal pm della Procura di Bologna, Marco Forte, ci sono 30 persone e 14 società indagate per vari reati tra cui quello di associazione criminale dedita al traffico illecito di rifiuti, principalmente moduli fotovoltaici. Per l’accusa, l’organizzazione raccoglieva in Italia pannelli arrivati a fine vita, fingeva di destinarli alle operazioni di trattamento e riciclo (facendo carte false) ma in realtà li rivendeva all’estero, soprattutto in Mauritania, Marocco, Senegal e Burkina Faso. 

La rete comprendeva una serie di società che gestiscono impianti di trattamento dei rifiuti elettronici in varie zone d’Italia. Una volta ricevuti i pannelli-rifiuto, invece di sottoporli alle corrette procedure di trattamento, queste società li inviavano tali e quali presso un impianto di Gualdo Tadino gestito dalla società Raeegest, il cui titolare, Renzo Gatti (nel frattempo deceduto), era considerato il dominus della presunta organizzazione. Gatti pagava per ogni pannello circa 10 euro. Si sarebbe procurato da altre società attestati di funzionalità da esibire in caso di controlli doganali e avrebbe rivenduto i pannelli, a 50 euro ciascuno, a cittadini stranieri che si occupavano di trasferirli via nave in Africa o in Asia. 

 

AFRICA E GSE: CHI CI PERDE

Il sistema fruttava parecchi soldi: non solo grazie alla rivendita dei pannelli all’estero, ma anche risparmiando sui costi del mancato trattamento. Al contempo, il meccanismo faceva perdere denaro al Gse, la società del ministero dell’Economia creata per sviluppare le rinnovabili in Italia. Per capire come mai il Gse, cioè in ultima istanza tutti i cittadini italiani, avrebbero perso soldi da questo sistema, bisogna prima capire come è organizzato il meccanismo di incentivazione del fotovoltaico. Dal punto di vista finanziario, semplificando al massimo, per gli impianti installati e incentivati dal Gse fino a metà del 2014 funziona così. Ammettiamo che un’azienda abbia comprato 1.000 pannelli da installare in Italia. L’impianto è incentivato dal cosiddetto Conto Energia: questo sistema, in vigore per pannelli installati dal 2007 a metà 2014, prevede che il Gse paghi all’azienda utilizzatrice dei moduli un incentivo per i kWh di energia prodotti. Lo stesso Gse trattiene però una parte di questo incentivo (10 euro per ogni modulo, dall’undicesimo anno di incentivo in poi), a garanzia della corretta gestione dei pannelli a fine vita. Insomma, una trattenuta per far sì che il modulo venga davvero riciclato, recuperando così i vari materiali utili alla transizione energetica. Una volta che l’azienda ha conferito i pannelli a un centro autorizzato per il trattamento, quest’ultimo le rilascia un attestato di avvenuto riciclo, che l’azienda deve poi presentare al Gse per avere indietro la quota d’incentivo trattenuta. Nei casi descritti nell’indagine giudiziaria, il trattamento dei pannelli non avveniva, ma i proprietari degli impianti (inconsapevoli del presunto raggiro) ottenevano comunque i documenti necessari per recuperare la trattenuta dal Gse.


Oltre a questi danni, c’è quello che avviene lontano dai nostri occhi: Paesi del Sud globale inondati da pannelli fotovoltaici malfunzionanti o di scarsa qualità, pericolosi per la salute umana e per l’ambiente. «Qui da noi sta diventando un problema enorme», spiega a L’Espresso Thomas Tayebwa, vice presidente del Parlamento ugandese. «Commercianti senza scrupoli importano pannelli di bassa qualità, ci attaccano sopra le etichette dei principali marchi globali, e poi li vendono a famiglie o piccole imprese inconsapevoli. In Uganda una parte importante della popolazione non ha accesso alla rete elettrica e utilizza l’energia solare come alternativa. Potete immaginare dunque l’impatto che questi pannelli contraffatti stanno causando. Le autorità europee devono fare di più: l’Ue applica degli standard molto rigidi sui prodotti che importa e dovrebbe farlo anche su quelli che esporta». 

 

IL GOVERNO PUNTA SUI CONSORZI 

Un ruolo fondamentale nella gestione dei rifiuti elettronici in Italia è svolto dai sistemi collettivi, ovvero consorzi formati e finanziati dai produttori di apparecchiature elettriche. Operano sotto la vigilanza del ministero dell’Ambiente e, fra quelli attivi, tre sono specializzati negli impianti fotovoltaici professionali. Si chiamano Pv Cycle, Ecoem ed Eco-Pv. Il loro compito è provvedere, per conto degli associati (cioè dei produttori di pannelli), alla raccolta e all’invio a trattamento dei moduli giunti a fine vita. Le operazioni di trattamento, però, non sono svolte direttamente dai consorzi, ma da strutture terze a cui si rivolgono. Proprio come la Raeggest.

Dagli atti dell’indagine giudiziaria emerge che tutti e tre i consorzi lavoravano con la Raeegest. Nessuno di loro è indagato dalla Procura di Bologna, ma durante i sequestri gli investigatori hanno scoperto che molti pannelli in procinto di espatriare erano stati raccolti dai con orzi Pv Cycle ed Ecoem. Inoltre la numero uno di Pv Cycle Italia, Rosa Narcisi, è accusata dalla Procura di far parte della presunta associazione criminale: in cambio di «corrispettivi in denaro» da parte di Gatti, si legge nell’avviso di conclusione delle indagini, Narcisi avrebbe «convenuto» con una dipendente della Raeegest che «i rifiuti non sarebbero stati sottoposti ad alcun trattamento» e aveva anche concordato sempre con la stessa persona di «poter falsamente dimostrare cartolarmente la correttezza delle operazioni svolte».

«Il procedimento penale – ci ha detto Narcisi – si trova ancora in una fase del tutto preliminare, in cui non vi è stata ancora la possibilità per il giudice né di esaminare né di valutare la fondatezza degli atti di indagine relativi alla mia posizione. In ogni caso sottolineo la totale estraneità mia, del consorzio e della società rispetto ai fatti in considerazione e sono certa che sarà dimostrato fin dalla prima fase, con il supporto dei miei difensori, che il coinvolgimento è dovuto a un equivoco investigativo. Ripongo pertanto piena fiducia nell’operato delle autorità giudiziarie, proseguo serenamente nel mio ruolo e nella mia attività che ho sempre condotto con onestà», ha aggiunto la country manager di Pv Cycle Italia. Per comprendere meglio i rapporti con la Raeegest, abbiamo rivolto delle domande anche ai consorzi Ecoem ed Eco-Pv, ma nessuno dei due ha risposto.

Di sicuro, gli atti della Procura di Bologna indicano un fatto: i consorzi non sono stati in grado di controllare se i pannelli da loro raccolti venissero davvero riciclati. Eppure, il governo Meloni ha voluto promuovere il loro ruolo rispetto a quello del Gse. Il Decreto Energia, convertito in legge a inizio 2024, prevede infatti il raddoppio della trattenuta del Gse (fino al 2023, come detto, fissata a 10 euro) per i pannelli non registrati presso un sistema di raccolta. In pratica, con la nuova legge il proprietario di un impianto fotovoltaico da 1 MW che lascia il Gse e aderisce a un consorzio ottiene un risparmio di circa 40 mila euro. Logico immaginare che molti seguiranno questa strada. Visto quanto emerso con le inchieste giudiziarie, e visti soprattutto i milioni di moduli che nei prossimi anni arriveranno a fine vita, sarà però necessario perlomeno rivedere il meccanismo dei controlli da parte delle autorità, in primo luogo del ministero dell’Ambiente. In caso contrario, potrebbe emergere in modo ancora più chiaro, parafrasando i Pink Floyd, «the dark side of the sun».

Inchiesta realizzata grazie al contributo di Journalismfund Europe