Globalizzazione, un focus sui dazi e il ruolo attuale del dollaro: i temi al centro del colloquio tra Ignazio Visco, ex Governatore della Banca d'Italia e Walter Galbiati, vicedirettore di Repubblica, sono diversi, ma tutti collegati dal fil rouge dell'economia statunitense. Quello della mondializzazione, in particolare, è l'argomento più delicato: "Va anzitutto sottolineato che nonostante i benefici della globalizzazione, e dell’eccezionale progresso tecnologico, degli ultimi decenni, sia straordinariamente mancata l’azione politica rivolta a una loro equa distribuzione (per non parlare degli effetti negativi sul clima e l’ambiente). Questo spiega anche l’atteggiamento che ampie fasce della popolazione, soprattutto (ma non solo) negli Stati Uniti, appaiono avere nei confronti dell’apertura dei mercati e del libero scambio", ha spiegato Visco nel corso dell'intervista.
"Con la nuova amministrazione Trump, la frammentazione economica è destinata ad aumentare, probabilmente non solo tra paesi avanzati e emergenti. Tuttavia - continua -, riguardo alla ‘fine della globalizzazione’ risponderei con un qualificato ‘no’. Data l’interdipendenza economica ancora esistente una drastica ridistribuzione dei luoghi di produzione appare infatti ancora difficile da attuare, e in termini economici molto costosa. Fino allo scorso anno, comunque, nonostante barriere, tariffe e sanzioni, il commercio internazionale ha continuato a vedere una Cina particolarmente attiva, anche con triangolazioni nei confronti degli Stati Uniti grazie al ruolo di intermediazione svolto da numerosi altri paesi emergenti”.
A fronte di questo scenario, gli squilibri associati all’apertura dei mercati mondiali di beni, servizi e capitali hanno avuto un impatto chiaro sulla bilancia dei pagamenti dei diversi Paesi: “Nel mondo ormai c’è un solo grande debitore, gli Stati Uniti: la loro posizione patrimoniale netta – la differenza tra le attività finanziarie detenute all’estero dai residenti negli Usa e le passività finanziarie verso non residenti – è negativa per oltre 26.000 miliardi di dollari, pari al 90% del Pil. Molti altri Paesi hanno invece attività finanziarie nette positive, anche se individualmente molto più piccole in termini assoluti", afferma l'ex governatore. "Tra i Paesi creditori, le più importanti, tra i 3.000 e i 4.000 miliardi, sono quelle di Giappone, Germania e Cina. Questo è soprattutto il risultato di importazioni americane superiori ogni anno alle loro esportazioni. La somma nel tempo dei disavanzi ha quindi prodotto passività nette il cui valore è straordinariamente aumentato negli ultimi 15 anni. Infatti, pur cresciuti in termini assoluti (in particolare nei confronti della Cina che dall’inizio del secolo ha accumulato un surplus di esportazioni nette di beni pari a circa 7.000 miliardi di dollari) non sono i disavanzi commerciali ad aver determinato lo straordinario aumento relativo delle passività nette degli Stati Uniti verso l’estero”.
Un aumento, spiega, "in parte dovuto all’apprezzamento del dollaro nei confronti del complesso delle altre valute, ma soprattutto a un incremento eccezionale, superiore al 370%, dei valori azionari delle società americane (a fronte di meno del 25% dell’aumento medio in dollari delle quotazioni azionarie delle società nel resto del mondo). Se si escludono queste variazioni di valore la posizione passiva netta americana, oggi pari al 90% del Pil, è ferma al livello del 50% circa registrato nel 2010”.
Ma oltre all’apprezzamento del dollaro, spiega l'ex governatore di Bankitalia, lo straordinario aumento del valore delle passività finanziarie statunitensi è dovuto a una crescita senza pari dei prezzi delle azioni: "Questa è stata trainata dalla performance dell’industria tecnologica statunitense, in particolare dai titoli delle maggiori società tecnologiche, le ‘Magnifiche 7’, sia negli Stati Uniti, dove rappresentano circa un terzo della capitalizzazione complessiva del mercato statunitense, sia a livello mondiale. Il loro successo è certamente il risultato dei massicci investimenti in innovazione e capitale effettuati dopo la crisi finanziaria mondiale, e riflette quella che è stata la forza dell’economia statunitense, più che la debolezza connessa con lo straordinario passivo finanziario netto nei confronti dell’estero. "Tuttavia, l’altissimo rendimento di questi titoli riflette probabilmente anche l’aumento del loro potere di mercato e il parallelo aumento dei profitti di monopolio, risultato di una preoccupante concentrazione di conoscenze e potere economico (cui fanno riscontro analoghi sviluppi in sistemi fortemente autocratici). Questo da un lato comporta perdite di benessere sociale, dall’altro potrebbe avere conseguenze non positive nel più lungo periodo, per l’affievolirsi, in particolare, degli investimenti innovativi in connessione con l’aumento delle rendite monopolistiche. Vi è evidentemente il rischio che tutto ciò porti a una correzione del mercato azionario non graduale, e forse eccessiva”.
Un aggiustamento è possibile, anzi, secondo Visco, è necessario: "Il rischio è che sia disordinato e molto costoso. I dazi sono imposte sui flussi commerciali; probabilmente determineranno un aumento dei prezzi dei prodotti importati dagli Stati Uniti. Se ne deriverà una riduzione delle importazioni di manufatti, semilavorati e materie prime non tutte potranno essere sostituite, nel tempo, dalla produzione interna, una produzione che sarà comunque più costosa e, a parità di occupazione, andrà probabilmente a scapito della stessa produzione americana per l’export. È comunque molto dubbio che si possa ottenere una riduzione dello squilibrio commerciale americano in assenza di un calo dei consumi, e questo è probabilmente il modo meno efficace e più costoso per ottenerlo". E aggiunge: "L’alternativa sarebbe quella di ridurre il disavanzo pubblico americano, ma le maggiori entrate dovute ai dazi (pagate in ultima istanza dai consumatori americani e forse in parte dalle imprese estere esportatrici se riusciranno a contenere i loro prezzi) sembrano essere destinate nelle intenzioni del governo a ridurre le imposte, non i trasferimenti”.
Visco mette poi in guardia dal rischio di svalutazione del dollaro: "Nella letteratura economica a un aumento dei dazi è solitamente associato un apprezzamento del cambio, come riflesso delle presumibili conseguenti maggiori aspettative d’inflazione. Se però dominassero le attese recessive, connesse anche con lo straordinario aumento dell’incertezza associato alle iniziative che il governo americano sembra oggi mettere in atto oltre che sul piano tariffario anche sul fronte interno, potrebbero derivarne conseguenze negative per il dollaro. Una correzione in questa direzione è probabilmente dovuta; la questione, anche in questo caso, è come ottenerla senza tensioni particolarmente elevate, quando non possiamo che constatare il significativo indebolimento della cooperazione internazionale, non solo sul piano commerciale ma anche su quello finanziario”.