Il presidente neoeletto assicura che rimpatrierà tutti gli immigrati irregolari. Una politica che, se attuata, avrebbe conseguenze devastanti per entrambi i Paesi

Donald Trump è stato eletto alla Casa Bianca anche con il voto dei latinos. Tuttavia, sono proprio i 19 milioni di loro connazionali, uomini, donne e bambini presenti negli Usa senza documenti ufficiali di residenza, a rischiare la più grande deportazione di migranti mai avvenuta nella terra cresciuta grazie a chi li ha preceduti nei secoli. Paradossi di una vittoria che esalta e allarma gran parte dei paesi dell’America Latina e Centrale. Se leader autarchici come l’argentino Javier Milei, il salvadoregno Nayib Bukele e l’equadoriano Daniel Noboa sorridono entusiasti per l’arrivo del loro vecchio mito alla guida degli Stati Uniti, la stessa cosa non si può dire per i presidenti di sinistra che governano Colombia, Cile e Messico. Soprattutto quest’ultimo guarda con comprensibile preoccupazione a quello che potrebbe accadere con l’insediamento della nuova amministrazione a Washington che si rifletterà inevitabilmente in casa. 

Il tycoon è stato chiaro sin dall’inizio della sua vittoria schiacciante: rispedirà a casa chiunque non abbia i documenti in regola. Nessuno sconto a chi ha chiesto asilo, sostegno, anche solo espresso il desiderio di unirsi ai propri familiari che da tempo vivono e si sono inseriti nella terra promessa. Con frasi xenofobe che hanno lasciato perplesso perfino chi le ascoltava nei comizi, il 47° presidente americano ha definito quella vasta platea di aspiranti residenti «criminali che avvelenano il sangue del Paese»; li ha additati come «esseri che hanno geni cattivi» ripescando nelle più turpi affermazioni tipiche dell’ideologia nazista. Giocando con paure e leggende che ha spacciato per verità, ha fatto leva sull’amore per gli animali domestici di milioni di americani. Gli haitiani fuggiti dal Paese del terrore sono così diventati di colpo selvaggi che «mangiano i vostri gatti e cani», mentre i portoricani, americani per annessione senza mai esserlo veramente, «abitanti di un Paese pattumiera». La gente, decine di milioni di fans, ci ha creduto. Un po’ per ignoranza, un po’ perché riesumava quei sentimenti che continuano da sempre a galleggiare nella pancia della classe media americana, la vera forza su cui il vecchio Donald ha costruito il suo movimento Maga, il Make America Great Again.

In America Latina, e in Messico in parti- colare, l’idea sbagliata che l’isolazionismo di Trump sia preferibile a qualsiasi leadership democratica perché meno interventista, sarà presto contraddetta. Questo malinteso, osservano gli analisti, ha origine «nella sublimazione della peculiarità del Messico come Paese economicamente integrato nel Nord America e legato a una negoziazione permanente dei suoi interessi in materia di sicurezza, migrazione, droga e frontiera con Washington».

Definire gli immigrati «criminali che rubano, uccidono e violentano» serve ad allargare la platea delle persone da deportare e non limitarle a coloro che non sono in regola con la documentazione. Sono nemici e quindi vanno espulsi. Perché sostituiscono i lavoratori americani e causano l’aumento della disoccupazione, anche se tutti i dati indicano che sono proprio questi a svolgere lavori che i residenti non vogliono più fare e sono sempre questi a mantenere la sicurezza sociale senza, tra l’altro, beneficiarne. Altre statistiche dimostrano che negli ultimi quattro anni c’è stato il livello più basso di ingressi illegali. Ma questo non ha alcun valore per il nuovo presidente repubblicano che ha già annunciato l’assunzione di 10 mila nuovi agenti per pattugliare i confini tra Stati Uniti e Messico.

Il Paese confinante deve trasformarsi nel Muro che lo stesso Trump aveva iniziato a costruire. Finora, tra molte tensioni, l’ex presidente Andrés Manuel López Obrador, ha assolto il compito. Ha bloccato le carovane in arrivo dal Centro America all’altezza del confine con il Guatemala. Ma ricevere, di colpo, 11 milioni di messicani trapiantati in Usa, sarà tutt’altra cosa per la neoeletta Claudia Sheinbaum.

La prima donna presidente della storia del Messico ha subito placato l’ansia che l’elezione a valanga di Trump aveva generato tra i suoi concittadini. «Non c’è motivo di preoccuparsi», ha detto poche ore dopo i risultati. «Il Messico», ha sostenuto, «sarà sempre un Paese indipendente e sovrano. Ci sarà un buon rapporto. Non siamo in competizione con loro, ci completiamo a vicenda». La pupilla di Amlo conosce il peso delle rimesse che ogni anno gli immigrati messicani spediscono a casa. Parliamo di 63 miliardi di dollari che verrebbero a mancare all’economia del Paese, terzo pilastro del pil dopo il turismo e il petrolio. L’arrivo di questa ondata di persone significa meno offerta di lavoro e maggiore richiesta, con inevitabile aumento della disoccupazione. Perché bisogna considerare, nel nuovo rapporto bilaterale che si annuncia all’orizzonte, la seconda minaccia lanciata da Donald Trump: il varo di dazi del 25 per cento sulle importazioni dal Messico, oltre a una tariffa del 500 per cento sulle auto prodotte da aziende cinesi nel Paese. Secondo il think tank Capital Economics, già una tariffa del 10 per cento significherebbe una riduzione dell’1,5 per cento del Pil messicano. La minaccia non è a senso unico. Gli Usa hanno bisogno del Messico e anche se Trump punta sulle forze interne per ridare slancio all’industria nazionale, gli scambi commerciali e la forza lavoro a basso costo finiranno per incidere su ogni strategia. ni trapiantati in Usa, sarà tutt’altra cosa per la neoeletta Claudia Sheinbaum.

La prima donna presidente della storia del Messico ha subito placato l’ansia che l’elezione a valanga di Trump aveva generato tra i suoi concittadini. «Non c’è motivo di preoccuparsi», ha detto poche ore dopo i risultati. «Il Messico», ha sostenuto, «sarà sempre un Paese indipendente e sovrano. Ci sarà un buon rapporto. Non siamo in competizione con loro, ci completiamo a vicenda». La pupilla di Amlo conosce il peso delle rimesse che ogni anno gli immigrati messicani spediscono a casa. Parliamo di 63 miliardi di dollari che verrebbero a mancare all’economia del Paese, terzo pilastro del pil dopo il turismo e il petrolio. L’arrivo di qu sta ondata di persone significa meno offerta di lavoro e maggiore richiesta, con inevitabile aumento della disoccupazione. Perché bisogna considerare, nel nuovo rapporto bilaterale che si annuncia all’orizzonte, la seconda minaccia lanciata da Donald Trump: il varo di dazi del 25 per cento sulle importazioni dal Messico, oltre a una tariffa del 500 per cento sulle auto prodotte da aziende cinesi nel Paese. Secondo il think tank Capital Economics, già una tariffa del 10 per cento significherebbe una riduzione dell’1,5 per cento del Pil messicano. La minaccia non è a senso unico. Gli Usa hanno bisogno del Messico e anche se Trump punta sulle forze interne per ridare slancio all’industria nazionale, gli scambi commerciali e la forza lavoro a basso costo finiranno per incidere su ogni strategia.

Come sempre, i dazi saranno oggetto di trattative e pressioni. «Per la presidente Sheinbaum la sfida è enorme», osserva Tonatiuth Guillén, ex direttore dell’Istituto nazionale per l’immigrazione del Messico, «bisogna vedere se cederà come ha ceduto Obrador». Stessa cosa sul terzo capitolo della nuova saga tra i due paesi: il traffico di droga. Trump è stato drastico, come è suo costume. Ha promesso che colpirà con dei missili i laboratori di fentanyl, bloccherà i porti messicani, definirà i Cartelli organizzazioni terroristiche. Il tema è scottante e ha messo più volte in crisi i rapporti tra Usa e Messico. Tra duri scambi d’accuse e arresti eccellenti si sono rischiate rotture diplomatiche clamorose. L’esordio di Trump è benzina gettata sulla brace ancora accesa.