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novembre, 2024

Disagi e paura non si curano con il codice

“L’inasprimento delle pene non interviene sulle cause del conflitto sociale e rischia di criminalizzare il dissenso”, dice Stefano Musolino, segretario generale di Md

Salvo clamorose sorprese, a breve il nuovo decreto sicurezza diventerà una legge. Sul tema si è aperto un acceso di- battito. Sia l’Unione delle Camere penali sia l’Associazione italiana dei professori di diritto penale hanno criticato il nuovo pacchetto legislativo. Lei, Stefano Musolino, segretario generale di Magistratura democratica, come lo valuta?
«Anche noi siamo stati molto critici attraverso un comunicato, pubblicato sul nostro sito, dopo che il testo è stato licenziato dalla Camera. Questo ritrovarci insieme, pur da prospettive diverse, con una parte significativa del mondo accademico e dell’avvocatura, come le Camere penali, conferma che tutta la comunità giuridica condivide una seria preoccupazione per il contenuto di questo ddl. Noi auspichiamo che venga modificato. In un recente documento delle Camere penali, che ho sottoscritto assieme ad autorevoli professori universitari, si mette in evidenza come questo decreto costruisca nuove fattispecie di reato di cui non avevamo bisogno, criminalizzando il dissenso e il disagio sociale, con la pretesa di risolvere per via penale problematiche che meriterebbero di essere affrontate con strumenti diversi». 

 

Nel corso degli ultimi 15 anni sono stati varati numerosi pacchetti sicurezza. Crede che quest’ultimo sia come i precedenti o presenti maggiori o eventualmente minori criticità?
«Ne presenta di nuove e particolari. La caratteristica di tutti i disegni di legge sicurezza, che ci sono stati nel corso del tempo, è sempre stata quella di aggravare alcune fattispecie penali con aumenti sanzionatori o di crearne di nuove. Questo ddl interviene nel campo del dissenso sociale, criminalizzandolo e lanciando un pericoloso messaggio nei confronti di tutte le forme organizzate di dissenso nel Paese. La libertà di dissenso sociale e di azione sindacale sono pericolosamente indebolite da queste norme. Il ripristino come fattispecie di reato, invece di sanzione amministrativa, dei blocchi stradali e dei blocchi ferroviari rappresenta un ritorno alla legge Scelba che dice molto del motore valoriale su cui fonda il ddl sicurezza. Il conflitto, se governato, può essere foriero di migliori soluzioni politiche, se represso intimidisce il pensiero e rende più povero il discorso democratico». 

 

Secondo lei l’introduzione di nuove fattispecie di delitti e l’inasprimento delle pene farà calare i reati? 

«È scientificamente provato che non è così. Cito l’esempio delle morti per incidenti stradali, per le quali, dopo un intenso tam tam mediatico, il legislatore ha creato il reato di omicidio stradale. Ebbene nessuno può dire oggi che le morti per incidenti stradali si sono ridotte di una sola unità. Lo strumento penale andrebbe usato con maggiore cautela, ancora di più quando diventa strumento di repressione a danno di persone che non sono socialmente integrate. Infatti, proprio la mancata integrazione rende queste persone meno consapevoli del disvalore di alcuni comportamenti; sicché l’aumento delle pene o la creazione di nuovi reati non essendo nemmeno percepito dagli autori, non ha reali effetti inibitori. Per questo la gestione attraverso la leva penale dell’insicurezza pubblica, generata dalla marginalità sociale ha effetti tanto simbolici quanto concretamente inefficaci. Noi siamo persuasi, invece, che investire sulle forme di integrazione (e, quindi, di controllo) e su nuove modalità di welfare che responsabilizzano chi ne beneficia, consenta l’emancipazione dalla marginalità e dall’abbandono in cui si generano le scelte delinquenziali, garantendo una migliore sicurezza pubblica. La creazione di nuovi reati, invece, ha solo un effetto simbolico, quanto illusorio; una sorta di anestesia delle paure sociali che aggrega consenso, ma non risolve i problemi». 

 

Sembra essere iniziata una nuova stagione di fibrillazione, se non di scontro acceso tra politica e magistratura. Gli ultimi casi hanno per oggetto soprattutto la questione migratoria. Qual è il suo pensiero a questo proposito?
«Il tema delle migrazioni è un tema su cui si forma il consenso elettorale. Lo dicono anche la vittoria di Trump e i recenti esiti elettorali in Sassonia e Austria. È un tema su cui le destre mondiali riescono a lucrare molto consenso. Lungo questo solco, il governo italiano ha individuato nel Protocollo Albania una norma simbolica in funzione deterrente. È chiarissimo il messaggio che vuole essere lancia to ai migranti: non pensate nemmeno di venire in Italia perché il suolo italiano non lo toccherete. Sull’efficienza di questo protocollo c’è stato un investimento mediatico molto forte. Tuttavia, quando lo scorso 4 ottobre la Corte di giustizia europea, pronunciandosi in un caso sollevato da un giudice ceco ha affermato che la designazione di un Paese come sicuro, debba essere sempre verificata dal giudice e debba riguardare l’intero territorio e tutte le categorie di persone, l’investimento politico e finanziario del governo è entrato in conflitto con la normativa euro-unitaria. Il governo ha pensato di risolverlo, emanando un decreto legge che stabiliva quali fossero i Paesi sicuri, incurante che la norma si ponesse in contrasto con la direttiva europea, per come interpretata non solo dalla Corte di giustizia europea ma anche dalla giurisprudenza nazionale. La presidente del Consiglio ha detto che lei si sarebbe aspettata un aiuto dalla magistratura mostrando, così, di avere un’idea – mi per- metto di dirlo con grande rispetto – deformata dei rapporti istituzionali, perché la magistratura così viene intesa alla stregua della prefettura, delle forze dell’ordine, quindi come un organismo di supporto alle scelte del governo. E invece la magistratura ha una funzione di garanzia dei diritti fondamentali la cui tutela costituisce un limite alle scelte del legislatore, ai sensi dell’articolo 1 della Costituzione». 

 

Perché in Italia c’è un rapporto così conflittuale tra politica e magistratura? 

«Probabilmente è un’eredità figlia degli eccessi di Tangentopoli e poi del periodo berlusconiano. Tuttavia, credo che mai, quanto adesso, si sia arrivati a prendere un’alterazione profonda dei rapporti fra organi costituzionali. Un sovvertimento perseguito in modo subdolo, strisciante senza dichiarare chiaramente quali siano gli scopi. In conseguenza, purtroppo, non c’è consapevolezza pubblica dei rischi che corrono i delicati equilibri costituzionali che fondano il nostro Stato di diritto, la democrazia liberale e quindi i diritti e le libertà di tutti». 

 

Secondo lei invece il cittadino ha fiducia in chi lo deve giudicare?

«La magistratura non è un organo perfetto. Abbiamo molti difetti e proviamo a emendarli in modo non sempre efficace. E però stiamo subendo un attacco mediatico che dura da una ventina d’anni, fondato sull’esaltazione dei nostri non pochi difetti. Si dimentica così che la magistratura italiana – nonostante vuoti di organico ed inefficienze della macchina ministeriale – è la più produttiva d’Europa, secondo tutte le statistiche e ha combattuto e continua a combattere fenomeni criminali particolarmente aggressivi e complessi come terrorismo e mafia. Se non la si guarda dal buco della serratura dei suoi difetti, potrebbe essere una sorta di orgoglio nazionale, seppure nella consapevolezza che santi ed eroi non ce ne sono in nessun posto. Siamo esseri umani che a volte sbagliano. La speranza è che si guardi al buono di quello che siamo capaci di fare e ci si aiuti a migliorare le cose che non vanno, piuttosto che puntare a sovvertire i rapporti di forza costituzionali. Perché un giudice non autonomo e non indipendente è un giudice pericoloso per un’efficace tutela dei diritti dei cittadini». 

 

Della separazione delle carriere cosa pensa? È favorevole o contrario? 

«Io sono contrario. È una delle cose che ci separa dall’avvocatura con la quale invece abbiamo molte sintonie per esempio sulle carceri o sulla critica al cosiddetto panpenalismo legislativo. Ci sono due dati statistici oggettivi. Il primo: i trasferimenti da pubblico ministero a giudice o da giudice a pubblico ministero sono stati praticamente azzera ti dalle riforme che, a Costituzione invariata, hanno realizzato la separazione delle funzioni. Il secondo: se si leggono le statistiche si scopre che le sentenze di condanna sono intorno al 50%. Insomma, sono i numeri a dire che la magistratura giudicante non è assoggettata al pubblico ministero, altrimenti le percentuali sarebbero state molto diverse». 

 

La criminalità organizzata negli ultimi 10/15 anni è cambiata? E, se sì, in che termini? Ritiene che gli strumenti di contrasto apprestati siano oggi ancora validi? Per esempio, ritiene che il 41 bis oggi abbia ancora un senso? E l’ergastolo ostativo? 

«La legislazione antimafia nasce sull’emergenza e rappresenta la frontiera più avanzata e quindi più delicata del limite che il diritto del singolo pone alla tutela della sicurezza da parte dello Stato. È un crinale lungo il quale le esigenze di sicurezza pubblica hanno, tendenzialmente, prevalso sui diritti individuali. Tuttavia, nel corso del tempo, si è compreso che la mafia non è un fenomeno di breve periodo, ma purtroppo cronico, sicché non può essere gestito nella logica della perenne emergenza. Per questo, nello sviluppo giurisprudenziale i diritti individuali tendono a risorgere nella ricerca di un migliore compromesso con le esigenze di sicurezza pubblica. L’evoluzione giurisprudenziale (quella della Cassazione e quella della Corte Costituzionale) in materia di ergastolo ostativo ne è un virtuoso esempio. Non sempre la risposta legislativa a quelli che erano stati gli insegnamenti della Corte Costituzionale è stata altrettanto adeguata; io credo che sia prevalsa la preoccupazione mediatica di riconoscere benefici penitenziari a un detenuto che ha commesso uno o più gravi omicidi di mafia, scegliendo di non collaborare con la giustizia e, tuttavia, impegnandosi in un genuino percorso rieducativo, all’esito del quale è stata certificata la sua rinnovata capacità di reinserimento sociale. Credo, invece, che il regime detentivo dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario resti uno strumento necessario. Ancora oggi verifichiamo come la capacità di comunicazione degli esponenti apicali della ’ndrangheta all’esterno, sia resiliente alle modalità detentive ordinarie. Perciò, nella misura e nei limiti in cui il regime 41 bis è funzionale a questa esigenza, la restrizione del regime detentivo è coerente con gli scopi reali ed attuali che ispirano la norma. E va ricordato come ulteriori originarie restrizioni di quel regime detentivo, non coerenti con tali scopi siano state depennate dagli interventi della Corte Costituzionale. Non dobbiamo, però, dimenticare che siamo di fronte a mafie che si stanno sempre più trasformando; in particolare, la ’ndrangheta è sempre più orientata alla gestione del narcotraffico assieme a organizzazioni internazionali con le quali da tempo ha stretto forme di alleanza che consentono all’organizzazione di muovere ingenti risorse finanziarie, con un’attenzione meno pressante al controllo del territorio reggino sempre più povero e depresso. Sta diventando sempre più camaleontica e diffusa in Italia e all’estero e di questo continua a non esserci adeguata percezione». 

 

Chiudiamo questo incontro parlando delle carceri in Italia e dei detenuti. Cosa pensa si possa fare per affrontare quella che è ormai considerata un’emergenza nazionale. È favorevole a un ampliamento della liberazione anticipata o a provvedimenti di clemenza come amnistia e indulto? 

«Sono sempre stato contrario all’amnistia, però mi pare che oggi siamo nella situazione drammatica di un sovraffollamento ormai cronico in strutture detentive spesso in condizioni terribili. Abbiamo fatto delle visite in carcere come Magistratura democratica, assieme all’Associazione Antigone e alle Camere penali. Siamo stati, per esempio, al carcere di Sollicciano. Un posto dove ho provato vergogna come magistrato e come rappresentante dello Stato. I detenuti erano costretti in una struttura infestata dalle cimici, in maniera irrisolvibile perché ormai sono dentro le pareti umide. Situazioni analoghe abbiamo visto anche in altri istituti penitenziari in cui il sovraffollamento e l’inadeguatezza delle strutture allontanano questi luoghi di pena dal modello costituzionale; un luogo, cioè, in cui il detenuto possa intraprendere un trattamento rieducativo funzionale al suo recupero sociale. Ecco perché qualunque iniziativa volta a ripristinare condizioni di normalità costituzionale, come la liberazione anticipata o anche l’amnistia potrebbero essere una soluzione accettabile, pur di non proseguire in questo scempio dei diritti, scandito dal numero di suicidi di detenuti e personale della Polizia penitenziaria».
 

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