Fermare le guerre
Il prezzo di una pace al ribasso
Il via libera di Biden sui missili in territorio russo è il tentativo dell’uscente di frenare gli slanci del successore verso Putin. Il Kursk diventa moneta di scambio
L'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti ha segnato un cambiamento immediato nella percezione dei centri di potere. La sua residenza di Mar-a-lago, in Florida, è diventato il punto nevralgico nel quale la futura amministrazione sta mettendo a punto le strategie di politica interna ed estera. Ed è impressionante la velocità con la quale alcuni degli alleati che più hanno contato sugli Usa negli ultimi anni, in particolare Israele e Ucraina, hanno voltato le spalle a Joe Biden. Quando Netanyahu ha inviato il suo ministro degli Affari strategici, Ron Dermer, ad aggiornare la Casa Bianca sullo stato dei colloqui di pace in Libano, la consegna è stata chiara: Trump first
Dunque Dermer si è fermato a Mar-a-lago prima di volare a Washington dove lo aspettava Biden. «Si tratta di un segno della rapidità con cui il centro di gravità politico americano si è spostato dopo la vittoria elettorale di Trump», ha scritto il Washington post all’indomani di quello che è stato chiaramente uno sgarbo di Tel Aviv al presidente uscente. La reggia del tycoon è infatti subito diventata il quartier generale di un’amministrazione ombra che non ha intenzione di aspettare gennaio per iniziare a dimostrare chi è che comanda ora negli Stati Uniti. A poco è servita la mossa a sorpresa di Joe Biden che ha concesso all’Ucraina l’autorizzazione a colpire il territorio russo con i missili a lungo raggio made in Usa. I fedelissimi di Trump lo hanno accusato di voler «trascinare l’America nella Terza guerra mondiale», gli altri di aver deciso troppo tardi. Ma i calcoli di Biden sono tutt’altro che incomprensibili. Il presidente ha provato a fornire a Kiev una polizza contro le pressioni future che sicuramente questa riceverà dalla prossima amministrazione. Nel caso in cui si obbligherà Zelensky a sedersi a un tavolo negoziale con Putin, l’unica moneta di scambio che l’Ucraina potrà opporre alle richieste di capitolazione saranno i territori russi del Kursk che attualmente occupa. Infatti Washington non ha fornito un via libera totale. Per il momento l’esercito ucraino potrà usare il sistema denominato Atacms, (acronimo di Army tactical missile systems) nella regione russa di Kursk per difendere le conquiste territoriali realizzate lo scorso agosto. Tali missili, che hanno un raggio di circa 300 km, potranno essere usati per colpire i reparti russi e nordcoreani, i mezzi, i depositi e la catena di approvvigionamento dei nemici. È un messaggio chiaro sia per la Corea del Nord sia per Trump e i suoi progetti di pacificazione con il Cremlino. Il tempo però è quasi scaduto e il presidente neoeletto ha fatto capire chiaramente che le vecchie strutture organizzative, persino le vecchie prassi, saranno «ribaltate», a partire dall’impegno dell’imponente macchina bellica a stelle e strisce in Ucraina e in Medioriente.
Con Israele gli Usa hanno già condiviso quasi tutto, dalle forniture belliche all’intelligence, passando per il supporto militare, ma dopo le elezioni del 5 novembre il premier Netanyahu è sicuro che non ci saran- no più limiti o reprimende, seppure solo di facciata come quelle di Biden. Finora Bibi ha agito in ogni modo possibile per ostacolare i piani di pace proposti dall’amministrazione Usa. Ha fatto naufragare i colloqui con Hamas avanzando ogni volta richieste nuove e irricevibili dalla controparte, ha proseguito i bombardamenti contro il Libano meridionale incrementando gli attacchi alle basi dei caschi blu della missione Unifil e ha dichiarato che Israele non si fermerà fino a quando non raggiungerà «una vittoria totale». Ora, come se si trattasse solo di un gioco politico che non coinvolge quasi 50mila morti e altre decine di migliaia di feriti, sfollati e orfani sembra che Netanyahu abbia intenzione di offrire in “regalo” a Trump una tregua in Libano.
Secondo alcuni anonimi funzionari israeliani sentiti dal Washington post, i termini dell'accordo richiederebbero ai combattenti di Hezbollah di ritirarsi a nord del fiume Litani, il limite settentrionale della zona cuscinetto istituita dopo il conflitto del 2006 e attualmente monitorata da Unifil. La zona tra la «Linea Blu» (l’attuale confine tra il Paese dei Cedri e il territorio di Tel Aviv) e il Litani dovrà essere controllata dalle forze armate libanesi che avrebbero il compito di smantellare le strutture di Hezbollah e istituire presidi militari permanenti che evitino in futuro ulteriori attacchi oltreconfine da parte dei miliziani sciiti. Non è chiaro se Israele chiederà di continuare a utilizzare lo spazio aereo libanese a suo piacimento e se esigerà che le sue truppe possano effettuare incursioni armate nella «zona cuscinetto». Ma, in questo caso, Hezbollah e le autorità libanesi hanno già dichiarato che non accetteranno alcuna proposta. Nell’ottica di un accordo da firmare in fretta, per quanto temporaneo, è improbabile che Israele insista così tanto sugli ultimi due punti, «ma se i miliziani sciiti non dovessero accettare», scrive il Wp, «le truppe israeliane sarebbero anche pronte a un’invasione in forze del Sud del Libano».
In Ucraina, invece, Trump non avrà nessuno pronto a fargli concessioni, ma tanti desiderosi di approfittare della sua principale promessa elettorale: terminare la guerra in 24 ore. Come? «Forse non è chiaro neanche a lui», scrive l’Economist, che in un articolo della settimana scorsa sottolineava come per molti alti funzionari ucraini la nomina di Trump non fosse stata recepita come una notizia così negativa. «Di fronte alla scelta tra la prosecuzione del supporto di sussistenza o un presidente “scheggia impazzita” che potrebbe stravolgere le regole e tagliare quasi del tutto gli aiuti, sono pronti a scommettere», scrive la rivista britannica. Più che una scelta sembra si tratti di disperazione, ammettiamolo. Ciò non di meno l’Ucraina avrebbe diversi motivi per reputare positivo un cambio alla Casa bianca. I reparti al fronte, così come i funzionari a Kiev, vengono da mesi di promesse non mantenute e attese frustranti per i ritardi nelle forniture di aiuti militari, anche per i pacchetti già approvati e finanziati dal Congresso.
L’atteggiamento evasivo di Joe Biden di fronte alle continue richieste di «garanzie di sicurezza» da parte di Zelensky ha fatto naufragare il tanto sbandierato «piano per la vittoria» proposto a inizio autunno. E non mancano i problemi interni. Nei suoi quotidiani video-messaggi alla nazione il presidente con l’uniforme ha continuato a ribadire che «il mondo libero sostiene l’Ucraina», che gli alleati non l’abbandoneranno e che la guerra si concluderà con una vittoria «del bene sul male». Ma gli ucraini non gli credono più, iniziano a bollare i messaggi di Zelensky come propaganda del governo. La nomina di Marco Rubio come capo della diplomazia Usa non è una notizia troppo sfavorevole per Kiev: il futuro segretario di Stato si è prima schierato apertamente a favore dell’invio di armi in Ucraina e ha poi sposato l’ordine di scuderia di votare contro il pacchetto straordinario proposto da Biden a inizio anno, pur sottolineando la sua opposizione a ogni concessione alla Russia. Ma al momento l’unico piano per l’Ucraina sul tavolo di Trump è quello del suo vice, Jd Vance: «Congelamento del conflitto sulle linee attuali del fronte e l’Ucraina in una condizione di neutralità, senza evidenti garanzie di sicurezza o limitazioni per Putin». L’incubo degli ucraini. Fino a gennaio mancano due mesi e molte cose possono cambiare, Putin ci sta provando manu militari, Zelensky blandendo Trump e sperando che l’ego del tycoon alla fine lo spinga a scontrarsi con il capo del Cremlino.