Girano con il coltello in tasca, o anche con la pistola. Per sentirsi grandi o esorcizzare i propri demoni. Viaggio in un malessere che dilaga. Contro il quale l’unica risposta è la repressione. Fallimentare

Parole come coltelli. Bastano un battibecco social o una lite ai tavoli di un pub per tirare fuori le lame. Si muore o si viene feriti per quelli che il Codice penale definisce «futili motivi» ma che esprimono un male profondo perché i protagonisti sono giovanissimi, parecchi sotto i diciott’anni e già a mano armata. Tantissimi quelli che vanno in giro con un coltello in tasca, di ogni ceto sociale e in qualsiasi città, dal Nord del benessere alle periferie estreme del Sud. Alcuni passano alla pistola prima di compiere la maggiore età e non la usano per rapinare ma tirano il grilletto per punire un’occhiata di troppo o una pedata sulle scarpe griffate. Dicono tutti di essere assassini inconsapevoli, perché non si sono resi conto di uccidere: una generazione incosciente dove lame e persino revolver
stanno diventando la normalità.

 

Siamo davanti a un’emergenza che nessuno vuole affrontare: i genitori che chiedono aiuto vengono lasciati soli; gli insegnanti che lanciano l’allarme non ricevono risposte. Le istituzioni hanno chiuso gli occhi sulla quotidianità lancinante dei nostri figli, sempre più abbandonati a se stessi confondendo la realtà con i videogiochi: non percepiscono il valore della vita e per questo ignorano quanto sia pericoloso impugnare un coltello. Napoli viene indicata come la capitale di questi omicidi acerbi, senza mai un movente: una città dove è facile trovare una pistola. Negli ultimi dieci mesi i carabinieri hanno arrestato cento persone con addosso una rivoltella: otto i minorenni mentre altri trenta sono stati denunciati. «Vi prego, deponete le armi, abbandonate la logica del sopruso e della prepotenza e lasciatevi raggiungere, educare ed accompagnare da chi crede ancora in voi, da chi vede nel vostro cuore un punto sacro e accessibile al bene. Perché è in gioco la vostra vita e cambiare è possibile», ha esortato l’arcivescovo Mimmo Battaglia celebrando i funerali di Emanuele Tufano, ammazzato a 15 anni durante una sparatoria tra baby gang il 24 ottobre. Ormai non ci sono limiti anagrafici alla violenza. La scorsa settimana a Giugliano, cittadina ormai fusa con le periferie partenopee, un bambino di dieci anni ne ha accoltellato uno di tredici per farsi dare un pallone. Il problema è ovunque, basta seguire la cronaca più recente. A Roma un quattordicenne sgridato per schiamazzi ha replicato tirando fuori il pugnale. A San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, un quattordicenne ha inferto quattro fendenti al padre che lo redarguiva: lo descrivono come un ragazzo serio, «con un alto rendimento scolastico». A Latina il sabato sera la movida è finita con il polmone trafitto di un adolescente e altri due giovani con tagli al collo.

 

Si può provare a fare luce sul lato oscuro della giovane Italia partendo da Bologna. Marco ha sedici anni e già tre volte si è trovato una lama puntata contro: «Un anno fa ero con i miei amici in un giardinetto del centro. Un gruppo ha cercato di provocarci, poi ha circondato uno di noi che però è riuscito a scappare. La seconda volta, durante una festa in una casa privata, una comitiva si è presentata minacciosa, volevano entrare e mi hanno messo un coltello alla gola. In un altro caso hanno chiuso in un angolo un coetaneo che conoscevo, accusandolo di parlare con una ragazza fidanzata. Ho cercato di dividerli. E sono spuntati i coltelli». C’è di più. Marco sostiene che pure sotto le Due Torri «le pistole sicuramente circolano. Ce l’hanno molti per farla vedere e intimidire fortemente gli avversari». C’è un clima diffuso di sfida e di paura, totalmente fuori controllo, che genera violenza. Lo scorso 4 settembre a Bologna Fallou è stato ucciso a sedici anni da un coetaneo che neppure conosceva. Atletico e generoso, è intervenuto con la grinta del giocatore di football americano per aiutare un amico, a cui riteneva avessero rubato il telefonino. Ha placcato il presunto ladro ed è stato travolto dall’esplosione di una rabbia accumulata da un adolescente che si sentiva bullizzato. «Per Fallou l’amicizia era condividere tutto – racconta la mamma, Danila Corenzi – Poteva essere un pacchetto di patatine; poteva essere la penna, un quaderno. Faceva anche il volontario nella struttura dove lavoro: si occupava di un ragazzo con delle disabilità. Studiava e il suo sogno era venire assunto alla Ducati: avrebbe svolto in quell’azienda l’alternanza scuola-lavoro, non vedeva l’ora».

 

Le famiglie della vittima e del carnefice appartengono a quella che una volta si chiamava «piccola borghesia»: entrambe non riescono a trovare un perché. «Io faccio l’educatrice e sento il dovere morale di interrogarmi su questa, non so come definirla, necessità, usanza, attitudine, moda... Perché si esce con un coltello? – ragiona Danila Corenzi – Perché fa figo? Allora ragioniamo sul che cosa fa figo: la scarpa firmata o il vestito griffato o magari un’acconciatura diversa dal normale? Perché senti la necessità di difenderti? Vorrei sapere da chi, da cosa? E perché attacchi? Perché ti senti minacciato? Se uno esce con un coltello in mano è più probabile che ti venga di usarlo. E questo è brutto». Il padre del sedicenne che ha ucciso Fallou, anonimo per tutelare l’identità del figlio, è un dipendente statale. La sua è l’altra faccia del dramma. «Già una volta gli avevo trovato un coltellino nello zaino e mi sono fiondato dai carabinieri – ricorda con dolore – Gli ho chiesto di telefonargli, di spaventarlo, di fargli capire a cosa poteva andare incontro. Non ho fatto finta di niente: gli ho sequestrato il coltello, l’ho cazziato. Mi ha replicato: “Papà, tu abitavi in un paesino con tanti cugini e avevi qualcuno che ti poteva difendere se ti davano fastidio. Io qui non ho nessuno. Lo sai che sotto le botte uno può andare in coma e ci può pure rimanere? Come devo fare per difendermi?” Io cosa gli dovevo dire? Che deve fare un genitore più che andare dai carabinieri?». L’uomo racconta una serie di episodi violenti di cui il figlio era stato vittima – a cui Fallou era estraneo – ripetuti nell’arco di due anni: «Ho scritto alla scuola, ho mandato pec, ho cercato di contattare la dirigente. Niente. Le aggressioni sono proseguite. L’8 maggio ho scritto un’altra pec alla dirigenza ma non ho avuto risposta e allora ho presentato una nuova de- nuncia ai carabinieri: mai saputo nulla».

 

Anche la madre di Fallou pensa all’uccisore: «Io spero veramente che in futuro salvi almeno una vita per ripagare quella di mio figlio. E che magari abbia l’opportunità di studiare, di impegnarsi, di fare un lavoro per salvare tante vite. A noi Fallou non ce lo restituisce nessuno. Ma ho la speranza di riflettere insieme, di assicurare un’opportunità a tutti e soprattutto a coloro che hanno un disagio». Il giovane rinchiuso nell’istituto minorile non sembra avere davanti una speranza: «È in isolamento ventidue ore al giorno –riferisce il padre, non può frequentare la scuola. Gli altri lo trattano con ostilità. Che percorso lo attende? Lui era soltanto spaventato, so che è un buono...». «Dopo quello che è successo alcuni ragazzi mi hanno detto che conoscono tanti che hanno il coltello in tasca, persino a nove anni: “Se non lo hai, sei uno sfigato” – spiega Gaetano Passarelli, professore dell’Istituto frequentato da Fallou, ancora turbato – Durante le ore di lezione, un insegnante può poco: c'è un altro livello di comunicazione, di sentimenti, di dinamiche che noi non intercettiamo. C'è bisogno di psicologi per provare a costruire spazi in cui ragazze e ragazzi prendano parola, si assumano le responsabilità ma lo facciano nelle loro dinamiche. «Sono da 40 anni nella scuola e nell'ultimo periodo è peggiorato l'uso dei coltelli – ragiona Roberto Fiorini, dirigente scolastico dell’IIS Enrico Mattei – La scuola dovrebbe aiutarli a sviluppare un linguaggio diverso ma è organizzata come un'erogazione frontale di contenuti. Purtroppo è rimasta a livello gentiliano, la più fascista delle leggi fasciste».

 

Le statistiche del Viminale registrano un aumento dei minori arrestati o denunciati del 15 per cento in dodici anni: dai 28.196 del 2010 ai 32.522 del 2022. Nei reati di furto, rapina, estorsione la crescita è del 39,47 per cento. Impressionante il dato delle risse, arrivato a un incremento di oltre il 57 per cento. Un bilancio che purtroppo pare destinato a crescere. «Dopo il Covid vi è stato un aumento di uso di armi bianche: è un fenomeno trasversale, ragazzi di varie età e di varia estrazione»: Ciro Cascone da vent’anni si occupa di giustizia minorile e fino al 2023 è stato procuratore capo presso il tribunale dei minorenni di Milano: «Di fondo c'è una mancata consapevolezza, accompagnata a un senso di impunità. A Milano ho cercato di invertire questa rotta: il semplice porto di un coltello sfociava in un processo perché era l’unico modo per far comprendere ai genitori più che ai ragazzi la gravità dei comportamenti. So bene che non è risolutivo». L’unico intervento del governo è stato il Decreto Caivano. «Alcuni aspetti del Decreto tutto sommato hanno un loro fondamento – commenta Cascone – Prevedere una possibilità più ampia di arresto ha un senso come messaggio da mandare all’adolescente, perché l'aspetto pericoloso per molti è il delirio di onnipotenza». Genitori, insegnanti, magistrati si sono resi conto che c’è una generazione abbandonata, in quella che Cascone definisce «solitudine educativa». Più che in passato, è esposta senza strumenti a cattivi maestri che inneggiano al calibro nove o spiegano come mollare fendenti. Ma la risposta è solo insistere sulla repressione: «Il Decreto non ha risolto un bel niente: ha incrementato soprattutto la spinta punitiva, mentre invece servivano altre cose. I penitenziari minorili ora sono sovraffollati e non riusciamo a dare altre possibilità perché le comunità sono pochissime. È una scelta politica, chiaramente», dice Cascone. E conclude: «La prevenzione fa ancora fatica ad affermarsi o meglio abbiamo difficoltà proprio con questo concetto...».