Olga è stata uccisa dal marito. Il figlio Giuseppe Delmonte non l’ha più voluto incontrare. Ora, con la sua associazione, aiuta altri ragazzi e ragazze che sono vittime di una doppia violenza

Quando Giuseppe Delmonte è rimasto orfano era il 1997 e lui aveva 18 anni. Sua madre Olga è stata uccisa nella provincia di Varese a colpi d’ascia dall’ex marito, dopo cinque anni di stalking. Il padre di Giuseppe da allora è in carcere. «Io e i miei fratelli – dice lui – eravamo soli e attorno a noi c’era il nulla. Non esisteva nemmeno il termine femminicidio. Come orfani non abbiamo ricevuto nessun aiuto dallo Stato e per vent’anni non ho più parlato di quello che è successo». Poi l’incontro con uno psicoterapeuta che lo ha aiutato ad affrontare il trauma. «Sono andato in carcere da mio padre e non l’ho trovato diverso: continuava a giustificare ciò che aveva fatto perché mia madre lo stava lasciando. Da allora non l’ho mai più voluto vedere», prosegue Delmonte.

Mentre racconta la sua storia, nella sua voce non c’è esitazione. Quando inizia a parlare degli studenti che incontra nelle scuole durante le sue attività di sensibilizzazione, però, si emoziona: «Non posso raccontare tutte le violenze fisiche e psicologiche che mia madre e io abbiamo subìto da parte di mio padre, perché sono inaudite, ma quando porto la mia testimonianza nelle aule non vola una mosca. Tanti ragazzi e ragazze dopo gli incontri mi cercano e si confidano raccontando che anche la loro madre viene picchiata e non riesce a denunciare».

Ad aprile 2024 Delmonte ha fondato “Olga”, un’associazione che coinvolge psicologi, avvocati e forze dell’ordine proponendo attività di prevenzione e formazione nelle scuole contro la violenza di genere. A condurre iniziative di questo tipo in Italia è anche la rete di associazioni coordinata dall’impresa sociale “Con i Bambini”. Da alcuni anni ha intercettato il vuoto attorno agli orfani di femminicidio e li affianca offrendo sostegno psicologico, legale ed economico.

Nel 2018 l’Italia è stato il primo Paese in Europa ad adottare una legge appositamente dedicata a loro. La normativa, che «tutela gli orfani a causa di crimini domestici», offre loro la possibilità di cambiare cognome, di ricevere la pensione di reversibilità e l’eredità della madre, che prima di questa legge spettavano all’uomo che l’aveva uccisa. Sono previsti, inoltre, l’accesso a borse di studio e un indennizzo per le famiglie affidatarie pari a 300 euro al mese.

Nonostante queste disposizioni, attualmente non esiste un censimento ufficiale degli orfani di femminicidio e i servizi sociali faticano ad assisterli nel lungo periodo. I dati disponibili sono parziali e relativi ai minori che la rete di associazioni è riuscita a individuare in questi anni di ricerca sul campo, spiega Simona Rotondi, referente di “Con i Bambini”.

A giugno 2024 gli orfani under 21 individuati erano 417, ma in questo conteggio resta sommersa la maggior parte dei cosiddetti orfani storici, mai raggiunti dai servizi sociali e dal terzo settore. In 50 dei 70 casi esaminati, gli orfani hanno assistito alla violenza fisica, psicologica e sessuale subita dalla madre e il 36 per cento era presente al momento del suo omicidio. Questi abusi, che rendono gli orfani vittime di violenza assistita, avrebbero potuto essere dei campanelli di allarme. Tuttavia, secondo la relazione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, in due terzi dei casi il nucleo familiare non era seguito né noto ai servizi sociali del territorio prima del femminicidio.

Secondo l’analisi di “Con i Bambini”, il 42 per cento degli orfani oggi vive in una famiglia affidataria, il 10 per cento in comunità e un altro 10 per cento con una coppia convivente. Solo il 5 per cento è stato dato in adozione. Poco più della metà delle famiglie affidatarie ha ricevuto un aiuto economico da parte dell’ente pubblico, ma l’83 per cento di loro arriva comunque a fine mese con grande difficoltà, spesso per la necessità di circondarsi di specialisti per supportare i minori.

A pesare psicologicamente sugli orfani è anche la negazione di quanto successo. In una decina di casi di femminicidio esaminati tra il 2015 e il 2022, i figli e le figlie rimasti orfani, per esempio, non erano a conoscenza dell’accaduto o lo erano solo in parte. Non tutti gli orfani, poi, sono consapevoli di essere stati a loro volta vittime di padri violenti.

Anna Maria Zucca, referente del progetto “Sos”, che offre sostegno a orfani e orfane di femminicidio tra Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, spiega che riconoscere di aver assistito a situazioni di violenza è difficile e che solo dopo molto tempo le vittime capiscono di averne a lungo sminuito la gravità. Nell’esperienza di Salvatore Fedele, referente del progetto “Respiro” nel Sud Italia, gli stessi orfani sono vittime della cultura patriarcale e arrivano in alcuni casi a empatizzare con il comportamento del padre.

Proprio il rapporto tra gli orfani e i padri in carcere è altamente problematico. Gli autori di femminicidio non sono sempre disposti ad affrontare un percorso di rieducazione e questo influisce anche sulla relazione già compromessa con i figli. Al contempo, in carcere manca il personale necessario a fornire un percorso riabilitativo pensato anche in funzione del benessere degli orfani. Circa il 54 per cento di loro sceglie di non rivedere più il padre recluso, altri lo incontrano con il via libera del tribunale per i minori. «Si verificano così casi in cui i figli fanno visita al padre, ma né loro né lui sono pronti all’incontro – riferisce un operatore – l’uomo non ammette al figlio di avere sbagliato e di essersi comportato male nella relazione con la madre. Chi non ha una sentenza passata in giudicato poi non lo farà mai, perché spera sempre in un accorciamento della pena».