Il caso della maestra italiana in catene si intreccia con le alleanze in vista delle prossime elezioni europee. Giorgia Meloni non può guastare i rapporti con un potenziale alleato come Orbán. E quindi il governo chiude più di un occhio

Sabato 10 febbraio a Budapest si sono tenute le celebrazioni per il “Giorno dell’onore” e mai come stavolta i riflettori dell’Ue sono puntati sulla capitale magiara. Non per le parate, i concerti e le rievocazioni storiche accompagnate dalle svastiche e dai cori delle Ss scanditi dai gruppi neonazisti di mezza Europa; non solo almeno. Ma perché esattamente un anno fa Ilaria Salis, antifascista italiana 39enne, è stata arrestata proprio a conclusione di una di queste manifestazioni e da oltre un anno è detenuta in regime di massima sicurezza in un carcere ungherese. Il 29 gennaio Salis è stata portata in un’aula di tribunale con polsi e caviglie incatenate e accusata di terrorismo. Al di là dell’enorme sproporzione tra i fatti fin qui accertati e il trattamento riservato alla maestra milanese, il caso giudiziario è rapidamente diventato terreno di scontro politico. I rapporti della premier italiana Giorgia Meloni con il leader autoritario ungherese Viktor Orbán sono diventati piuttosto problematici per Roma, soprattutto ora che le elezioni europee di giugno impongono alleanze e strategie comuni tra la destra europea più intransigente.

 

«Il rapporto tra Meloni e Orbán è quanto mai ondivago», spiega il professor Stefano Bottoni, ex ricercatore dell’Accademia ungherese delle Scienze, autore di diversi libri sul sistema politico contemporaneo magiaro e attualmente professore associato di Storia dell’Europa orientale e Storia globale presso l’Università di Firenze. «Pur condividendo l’impostazione di fondo, ovvero il nazionalismo, si sono scontrati su diverse questioni che riguardano sia il posizionamento internazionale dei due Paesi sia il loro ruolo all’interno dell’Ue». Sull’Ucraina, ad esempio, l’Italia è schierata in modo inequivocabile con gli Usa e la Nato. Budapest, invece, non ha mai voluto rompere i rapporti con il Cremlino: ha criticato apertamente le sanzioni economiche alla Russia, continua a importare gas e idrocarburi dalla compagnia russa Gazprom e ha avversato apertamente qualsiasi passo per l’ingresso di Kiev nell’Ue. Sui migranti, «pur condividendo l’impostazione ideologica, le necessità pratiche di entrambi creano una frattura evidente», a causa dell’opposizione di Orbán alla redistribuzione dei richiedenti asilo o al pagamento di indennizzi economici agli Stati che (come l’Italia) registrano il maggior numero di ingressi. «Sono nazionalisti e perciò vogliono primeggiare sugli altri, il loro problema è proprio questo: la difficoltà di scendere a compromessi con gli altri nazionalisti», prosegue il professore.

 

D’altronde, «si ritiene che Fidesz (Unione civica ungherese, il partito di Viktor Orbán, ndr) alle prossime elezioni europee otterrà 14 deputati, forse addirittura 15, il che può spostare gli equilibri in seno all’Europarlamento. Per questo, nonostante da tre anni i partiti europei dichiarino di non volerlo accogliere in nessuna formazione, i suoi voti fanno gola». Meloni questo lo sa e «ora che si trova in una posizione di forza, da primo ministro e partito preponderante all’interno dell’Ecr (il gruppo di destra al Parlamento europeo dei Conservatori e dei Riformisti, ndr) ha dovuto scegliere. Da un lato non poteva allearsi con Identità e Democrazia», il gruppo di estrema destra del quale fanno parte la Lega di Matteo Salvini, il Rassemblement National di Marine Le Pen in Francia e i pericolosi neonazisti di Alternative für Deutschland in Germania. «Sarebbero una zavorra, Meloni ragiona in grande e in quest’ottica non le servono alleati così scomodi: se si àncora troppo alla destra più estrema faticherà a costruire intese più ampie». Ma Orbán non rappresenta una posizione minoritaria come quelle di Id, è anch’egli capo di governo e porta una dote di voti non trascurabile. Per questo, alla fine i due potrebbero accordarsi. Il 1° febbraio, lo stesso giorno della votazione sui 50 miliardi da stanziare per l’Ucraina da parte dell’Ue, il premier ungherese ha dichiarato che a breve entrerà nell’Ecr. Meloni ha parlato di «dibattito aperto» aggiungendo che si vedrà «dopo il voto».

 

Come a dire: aspettiamo di capire i rapporti di forza. Pochi giorni dopo dal più grande partito europeo di centrodestra (Ppe) è arrivata la prima doccia fredda: «Un’eventuale adesione di Viktor Orbán al gruppo Ecr sarebbe un serio ostacolo per la futura cooperazione del centrodestra nel Parlamento europeo». E Iratxe García Pérez, capogruppo dei Socialisti Europei, si è scagliata contro il presunto scambio tra Meloni e Orbán: «Ce lo spiegheranno loro, ma mi sembra che sia un’amicizia un po’ strana». Come è ormai conclamato, infatti, sembra che sia stato proprio il capo del governo italiano a mediare con Budapest per evitare che quest’ultima ponesse il veto allo stanziamento dei fondi per il governo di Volodymyr Zelensky. Che i due, oltre a parlare di Kiev, abbiano discusso anche dei propri rapporti futuri è molto probabile. Ma non sarà così semplice: «Perché i polacchi del Pis (il partito ultra-conservatore del premier uscente Mateusz Morawiecki) e i partiti dei Paesi baltici attualmente nell’Ecr non vogliono Orbán dato che è troppo filorusso». Vedremo se Palazzo Chigi potrà, e vorrà, mediare anche su quest’aspetto. Nella prospettiva di questo possibile matrimonio tra i nazionalisti europei il caso Ilaria Salis ha creato non pochi problemi. «Meloni si trova nella scomoda posizione di dover difendere una ragazza con cui non è d’accordo per niente oppure, come sta provando vagamente a fare, difendere Orbán prendendosi tutte le accuse dell’opposizione per aver difeso un’autocrazia».

 

Intanto, come ogni anno i neonazisti di tutta Europa si riuniscono nella capitale ungherese per celebrare i battaglioni delle Ss che combatterono contro l’Armata Rossa tra l’ottobre del 1944 e il febbraio del 1945. «Festung Budapest», Fortezza Budapest, viene denominato il raduno, in uno strano sconvolgimento della storia in cui i nazisti e i collaborazionisti ungheresi arroccati a difesa del Terzo Reich erano gli eroici resistenti e i soldati sovietici da poco usciti dall’assedio di Stalingrado e in contrattacco dopo il tentativo di invasione da parte dei nazifascisti (ricordiamo i 120 mila alpini dell’Armir, il corpo di spedizione italiano in Russia inviato a dar manforte alle mire espansionistiche di Hitler nell’Est) i barbari assalitori. Da anni nei giorni che accompagnano il “Giorno dell’onore” si segnalano assalti a sedi di associazioni Lgbt, aggressioni ai danni di rom, persone di colore, omosessuali, attivisti vari e semplici ragazzi che magari portano solo i capelli colorati di colori vivaci. Come Ilaria Salis, l’anno scorso centinaia di persone da tutta Europa si erano date appuntamento a Budapest per contrastare l’onda nera dell’odio e del revisionismo storico. Durante un corteo, secondo gli inquirenti ungheresi, Salis e altri due individui dal volto coperto avrebbero accerchiato due neonazisti e li avrebbero malmenati con un bastone. Poco dopo la ragazza è stata fermata in un taxi assieme a due antifascisti tedeschi e arrestata. I due estremisti di destra del video in ospedale hanno riportato prognosi di 5 e 8 giorni e non hanno sporto denuncia, annunciando che si faranno «giustizia da soli».

 

Dunque, mancando la denuncia delle presunte vittime, il punto resta l’azione penale della Procura di Budapest. «In Ungheria non c’è l’obbligatorietà dell’azione penale e quindi è sempre la Procura che deve decidere se avviare o meno le indagini, come ha fatto nel caso di Ilaria Salis», spiega il prof. Bottoni. «Al vertice della Procura dal 2010 c’è Peter Polt, un fedelissimo di Orbán, è lui che negli ultimi 15 anni ha organizzato il sistema delle Procure in modo gerarchico e compiacente al potere politico». Perciò il procedimento contro l’antifascista italiana ha tutti i contorni del «processo politico: gli imputati potevano essere arrestati e condannati a pene tutto sommato lievi. Invece, si è voluto creare un caso simile a quelli per terrorismo, trattandoli come dei terroristi, per lanciare un messaggio: non venite più in Ungheria a protestare». Ilaria Salis si è sempre dichiarata innocente, sostiene di non essere lei una degli aggressori incappucciati nel video e ha rifiutato di patteggiare 11 anni di reclusione, come proposto dall’accusa a fine gennaio. Ora ne rischia 24 e fino alla prossima udienza, prevista per fine maggio, dovrà restare in cella, in Ungheria. All’inizio di questa settimana il padre di Ilaria, Roberto Salis, ha incontrato il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il ministro della Giustizia Carlo Nordio. «È andata molto peggio di quanto ci aspettassimo. Siamo stati lasciati soli. Abbiamo chiesto due cose, i domiciliari in Italia o in alternativa in ambasciata in Ungheria ed entrambe le richieste ci sono state negate. Credo che mia figlia resterà ancora per molto tempo in carcere e la vedremo ancora in catene ai processi», ha dichiarato Salis all’uscita.

 

A questo punto sembra evidente che la linea scelta dal governo italiano sia quella del laissez faire. Nessun appoggio ufficiale alla linea di difesa scelta dai legali della famiglia Salis, nessuna dichiarazione pubblica effettiva se non qualche generica condanna contro le condizioni di detenzione troppo dure imposte a Ilaria e un auspicio di circostanza affinché i «giudici ungheresi compiano il loro dovere secondo la legge». Magari nell’attesa che il caso si sgonfi, che l’opinione pubblica si dimentichi di Ilaria Salis come ha fatto nell’ultimo anno.