Settimana corta, smart working. Mirano a personalizzare orari e sede dell’impiego. Per lavorare meno, lavorare meglio. Ma spesso la libertà nasconde lo sfruttamento

Sarà l’abitudine sempre più invalsa allo smart working, sdoganato dagli anni del Covid. Sarà il dilagare di altre priorità di vita, di modelli esistenziali para-digitali paracadutati dall’alto e ormai interiorizzati. Fatto sta che diverse ricerche pubblicate negli ultimi tempi convergono su un’aspettativa comune: lavorare meno, lavorare meglio. In libertà e autonomia, o almeno qualcosa di simile. È la speranza, per l’immediato futuro, di tanti italiani; ne guadagnerebbero così l’impegno e la produttività della manodopera, la competitività dell’impresa, l’attrattività nei confronti dei più giovani. Tutto ciò emerge forte e chiaro dal focus tricolore del “People at Work 2023: a global workforce view”, redatto dall’Adp Research Institute. E se su scala globale l’indagine ha interessato 33 mila lavoratori dislocati in diciassette Paesi, sono stati circa 2 mila quelli interpellati nel nostro. Si prenda ad esempio la settimana lavorativa di quattro giorni: per un italiano su quattro assurgerà a standard entro cinque anni; il 56% la vorrebbe subito. A costo di sgobbare dieci ore al giorno, se non si riesce a strappare una riduzione del monte ore settimanali a parità di salario. Tre lavoratori su dieci (30%) puntano sull’importanza dell’orario flessibile, mentre il 13% reputa fatalisticamente che andremo incontro presto alla diminuzione del lavoro manuale per via dell’intelligenza artificiale. Bene accetta la “personalizzazione” della sede lavorativa, un po’ offline e un po’ online, col rafforzamento del lavoro da remoto. A un livello magari esponenziale: il 18% immagina, infatti, che potrebbe prestare i suoi servigi da qualsiasi punto del mappamondo. Bastano una connessione Internet e il controllo potenziato da parte dei datori di lavoro. Diventerebbero sempre più nevralgici i risultati raggiunti. «I lavoratori in modalità ibrida sono più soddisfatti della flessibilità di cui godono (85%), mentre tra chi si reca tutti i giorni in ufficio è insoddisfatto un lavoratore su quattro», spiega Marcela Uribe, general manager Adp per il Sud Europa. E alla domanda «quale cambiamento hai pensato di attuare negli ultimi dodici mesi?» uno su quattro (24%) ha meditato di cambiare settore, il 15% di aprirsi un’azienda e il 7,5% è stato tentato dall’opzione dell’anno sabbatico.

 

Addio alle canoniche e immobili 40 ore lavorative? Marcia in questa direzione anche il più recente “Randstad workmonitor”, report semestrale internazionale focalizzato sui cambiamenti dell’atteggiamento dei lavoratori verso il loro lavoro (e sulle trasformazioni che il mercato del lavoro contemporaneo richiede). Qualche dato relativo alla nostra penisola: qui il campione coinvolto è intorno ai mille dipendenti, tra i 18 e i 67 anni. La flessibilità d’orario è rilevante per ben l’83% dei connazionali, quella del luogo per il 72%. Il 35% si professa pronto a rifiutare un’offerta di lavoro se non gli andasse a genio l’orario proposto, il 33% se la sede di lavoro fosse fissa. Proprio per questi motivi il 23% degli intervistati ha abbandonato il posto di lavoro precedente. Una cifra destinata a lievitare tra i 18 e i 34 anni: oltre il 50% leverebbe, senza problemi, le tende in caso di flessibilità insufficiente. E farebbe lo stesso il 40% dei 55-67enni. Sarebbero le stesse aziende a rincorrere questa pulsione collettiva. «Il 45% delle organizzazioni offre già flessibilità oraria (il 27% l’ha introdotta nell’ultimo anno), ma siamo ancora otto punti sotto la media globale – scrive “Randstad workmonitor” – il 44% propone flessibilità di luogo (il 25% l’ha inserita nell’ultimo anno), sei punti in meno della media globale». Il 58% dei lavoratori italiani non accetterebbe un impiego che influisse negativamente sull’equilibrio vita-lavoro, il cosiddetto work life balance. La settimana corta? L’anno scorso assicurò che avrebbe firmato a favore il 29%, soprattutto quelli con più di 35 anni. Più gli impiegati degli operai. Si precipita al 16% tra i giovanissimi nella fascia 18-24 anni.

 

E non occorrono statistiche per osservare come per la generazione Z il lavoro novecentescamente inteso sia spesso un fardello remoto. Le ideologie sono crollate, a polarizzare è il desiderio di massa di macinare soldi e consensi facili divenendo influencer, anzi opinion leader. Il senso del lavoro si disperde, così come sbiadiscono le sue più accattivanti insegne materiali: nel Belpaese gli aumenti in busta paga avvengono col contagocce, il welfare aziendale a macchia di leopardo, la formazione continua è una chimera e certi tipi di università un parcheggio. E va bene l’avversione, sacrosanta, al superlavoro, al burnout e agli ambienti di lavoro tossici; ma dobbiamo fare pure i conti con un’impennata dei working poor, delle aziende che licenziano e delocalizzano, dei contratti-pirata, del part-time involontario, degli incidenti sul lavoro. Della povertà persino tra chi possiede un contratto a tempo indeterminato: il carovita ha sfiancato tutti, specie coloro che hanno figli da crescere. E per chi è risucchiato negli ingranaggi della gig economy, girone sovente infernale all’ombra del grande paradiso illusorio del consumismo delle piattaforme, la flessibilità ideale è un pianeta distante e beffardo. Per i lavoratori intermittenti e a chiamata, puro cottimo 4.0, significa solo precarietà estrema. Altro che armonizzazione della sfera privata e professionale: è una deregulation, una libertà di cui avrebbero fatto volentieri a meno.