Da Stellantis a Ilva, passando per Gkn e Electrolux, sono centinaia le crisi aziendali conclamate. Nonostante le manifestazioni e gli scioperi non stanno ottenendo molto e ora i 186mila lavoratori coinvolti puntano a imitare il modello degli agricoltori in rivolta: «Alziamo il livello dello scontro»

Cos’hanno in comune gli agricoltori sui trattori e le tute blu di Mirafiori? Ad accomunarli c’è la sensazione che il diritto a un lavoro sicuro, e quindi a un reddito, stia scivolando via; e la netta impressione che nessuno al governo si stia occupando di loro. La differenza fra i due è che gli agricoltori hanno definitivamente perso la pazienza, hanno girato la chiave nel motore e si sono mossi – a favore di telecamera – su Roma e sull’Ariston di Sanremo, non solo perché i vincoli del Green Deal sull’uso di pesticidi e sul riposo dei campi sono troppo stringenti, essendo i margini già schiacciati dalla grande distribuzione. Ma anche perché si sentono abbandonati da uno Stato, presente solo al momento della riscossione. Anche gli operai Stellantis di Mirafiori si sentono traditi da una politica alla quale da mesi chiedono aiuto. E che risponde con l’ennesimo tavolo al ministero del Made in Italy, che non è mai quello risolutivo. Anche gli operai Stellantis, come gli agricoltori, hanno fatto scioperi: ma le loro manifestazioni (per ora) sono state ordinate e ordinarie. Per ora. «Dobbiamo fare anche noi così», commenta un gruppo di metalmeccanici in sciopero, fuori dalla portineria di Mirafiori, riferendosi alla possibilità di alzare il livello della protesta, proprio come hanno fatto i trattori. Molto dipenderà da quanto il governo concederà loro. Gli agricoltori, cellule eversive («C’è malessere, ma pure teppismo», ha detto il segretario generale della Coldiretti, Vincenzo Gesmundo), nella confusione hanno poi trovato una richiesta comune da fare al governo: fra compensazioni Iva, sgravi Irpef e crediti d’imposta sul gasolio, le tante anime della protesta puntano a portare a casa una cifra che si aggira attorno ai 250 milioni. Non una richiesta esagerata, se si considera che il ventilato ingresso dello Stato in Stellantis vale tra i 4 e i 5 miliardi. E che lo stesso Stato investirà 400 mila euro per la Gigafactory di Termoli, sempre nel perimetro Stellantis, dove saranno prodotte le batterie per le auto elettriche, ma salvaguardando solo 1.800 dei 2.100 dipendenti.

 

Il problema non è l’entità del bottino incassato dagli agricoltori, il problema è il messaggio che arriva dritto dritto alle altre 183 mila famiglie che in questo momento si trovano con un posto di lavoro a rischio. Alle Carrozzerie di Mirafiori, dove il padrone John Elkann ha prima comunicato ai 10 mila addetti sette settimane di cassa integrazione di fila per i lavoratori della linea di assemblaggio della Fiat 500 elettrica, e a ruota ha annunciato il blocco della produzione del Maserati Levante, tira brutta aria: «È da molti (troppi) mesi che viviamo in questa situazione di decadimento continuo e ricorso agli ammortizzatori sociali», dice Gianni Mannori della Fiom Cgil che continua: «Da quando è nata Stellantis siamo in mezzo a una strada, a manifestare, ma forse la nostra protesta non ha fatto abbastanza rumore. Invece i blocchi dei trattori hanno avuto quella visibilità che oggi i lavoratori dell’automotive cercano. Tutti si devono rendere conto della gravità della situazione: per produrre una nuova auto a Torino ci vogliono fra i sei e i dodici mesi, il tempo necessario per allestire la linea. Nel frattempo che facciamo?». Il rischio è che la rabbia diventi più forte della paura e che, se il governo Meloni accoglierà le richieste dei trattori, allora anche altri ne seguiranno l’esempio. «Siamo allo stremo», commenta un padroncino dell’indotto Ilva che da venti giorni presidia le portinerie dell’acciaieria di Taranto: «Da mesi non ci pagano. Non vogliamo rivoluzione, però…non possiamo diventare disoccupati a 60 anni. Siamo pronti ad alzare il livello dello scontro, come hanno fatto i trattori». La partita Ilva, come quella Stellantis, si sta giocando da parecchi mesi sul tavolo dello stesso ministero, al Made in Italy di Adolfo Urso. Ma languono le soluzioni tecniche, mentre si profila solo un esborso pubblico per salvarle. Al contrario, da mesi entrambi chiedono un piano industriale alternativo. Che non c’è.

 

A osservare con attenzione i risultati dei trattori è anche il collettivo di fabbrica della ex Gkn di Campi Bisenzio, rimasto a presidiare la fabbrica Fiat che produceva semiassi per tutte le auto del gruppo, poi venduta al fondo inglese Melrose e oggi in stato fallimentare nelle mani dell’imprenditore Francesco Borgomeo. La strada del collettivo è sinora stata pacifica e organizzata, nel tentativo di portare al ministero del Made in Italy un progetto di produzione di cargobike e pannelli fotovoltaici di ultima generazione. Ma i circa 170 dipendenti rimasti in forze all’ex Gkn non sono mai riusciti a trovare il sostegno del governo: «La battaglia dei trattori è una lezione per noi, che stiamo lottando per il diritto al lavoro. È uno stimolo alla mobilitazione: se un piccolo produttore in crisi, muovendo un trattore, riesce a portare a casa quello che chiede, anche il collettivo Gkn spingerà sul tema dell’intervento pubblico per finanziare un piano di conversione industriale».

 

E che dire della decisione degli svedesi di Electrolux di aprire una procedura di licenziamento per 168 lavoratori in sei sedi italiane? Per l’industria italiana del bianco, una volta fiore all’occhiello della metalmeccanica, oggi boccheggiante costellazione di piccole e medie imprese venete e lombarde, un’altra tegola è pronta ad arrivare: sul tavolo di Urso scotta la partita Whirlpool, con gli americani pronti a cedere i cinque stabilimenti ai turchi di Arcelik, senza garanzia di mantenere le maestranze. L’elenco delle crisi aperte al ministero è sterminato, da La Perla a Wartsila, da Lear a Industria Italiana Autobus: oltre 183 mila lavoratori coinvolti per la Cgil, che ha messo in fila i numeri degli addetti a rischio, più 121 mila persone che lavorano in aziende alle prese con una complessa transizione (di cui 70 mila nell’automotive). Ci sono poi gli ottomila dipendenti delle centrali a carbone, prossime alla chiusura. La tempesta perfetta per l’industria italiana è confermata dall’Istat: a novembre la produzione industriale è in flessione tendenziale negativa del 2,1 per cento; e Confindustria convalida il trend negativo, tenendo gli occhi puntati sulla crisi del Mar Rosso, che potrebbe comportare una nuova fiammata inflativa. Sarebbe il colpo di grazia per le Pmi, dal momento che l’aumento dei tassi d’interesse e il relativo aumento del costo del denaro sta rendendo impossibile ripagare i debiti.

 

L’apocalisse, però, era stata preannunciata. Per contrastare gli effetti negativi del Green Deal, l’Europa aveva dato il via al piano Next Generation Eu, cioè i 194,4 miliardi del Pnrr piovuti sull'Italia, per sostenere proprio una conciliazione fra transizione ecologica e giustizia sociale. Invece è ormai chiaro che il denaro del Pnrr, se e quando sarà speso, non servirà alla transizione, perché nessuno in quello che fu il ministero dello Sviluppo economico (in tal senso, bene ha fatto Urso a cambiare nome, perché di piani di sviluppo industriale, in quel dicastero, non se ne vedono) ha pensato di intavolare progetti che tenessero insieme giustizia sociale e ambientale. La verità è che oltre ai (tanti) capitali necessari per sostenere gli agricoltori arrabbiati e le tute blu senza una fabbrica, serve anche competenza e progettualità, per un’alternativa al pesticida e all’automotive in affanno. Che lo Stato, al momento, non sa offrire.