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Fela Kuti, il fantasma buono profeta dell'afrobeat

Un'immagine dal film "Fela
Un'immagine dal film "Fela

Un doppio ritratto firmato da Daniele Vicari. Protagonisti il grande musicista nigeriano e Michele Avantario, videoartista che lo aveva seguito in Africa. Più che un film un atto d’amore

Un ventennio carico di Storia, 43 chili di marijuana, 27 mogli sposate per sfida, 47 diversi archivi, soprattutto 50 ore girate in Nigeria e altrove dal videoartista Michele Avantario, più altre 17 riprese da una troupe venuta dal Ghana e mai viste prima. Per realizzare “Fela, il mio dio vivente”, elettrizzante doppio ritratto di un sognatore scomparso a soli 51 anni nel 2003, appunto Avantario, e del suo idolo Fela Kuti, mitico inventore dell’afrobeat, Daniele Vicari ha setacciato questi e molti altri materiali in un lungo viaggio sulle tracce di un film mai nato. Che però ha dato sangue e idee al suo, in sala dal 21 marzo dopo essere passato alla Festa del Cinema di Roma. Un trascinante diario apocrifo di Avantario, il pugliese che voleva essere africano, e qui ha la voce suadente di Claudio Santamaria (producono Fabrique Entertainment e Luce-Cinecittà con Rai Cinema e Michelangelo Film).

 

Vicino a registi come Bernardo Bertolucci e Gianni Amico, ma anche al critico Adriano Aprà, a casa di cui aveva a lungo vissuto, Avantario veniva da Trani ed era arrivato al cinema passando per la videoarte. Chi andava per festival negli anni Ottanta ricorda la sua silhouette da Peter Pan, il ciuffo rockabilly, lo sguardo distante di chi si porta dentro un mondo segreto. Quel mondo era la Nigeria, cioè Lagos, o meglio Kalakuta, la cittadella dotata di centro medico e sale di incisione in cui Fela Kuti viveva con i suoi musicisti, tra cui il grande Tony Allen; con le sue 27 mogli, sposate per sfidare il regime che nel 1978 aveva invaso Kalakuta violentando le coriste e scaraventando da una finestra sua madre; insomma con la sua cultura impastata di animismo e modernità (di buona famiglia, parente del Nobel per la letteratura Wole Soyinka, aveva studiato al Trinity College di Londra).

 

Un mondo “altro”, oscuro e infinitamente seducente, che Avantario scopre quando nel 1984, grazie a Renato Nicolini, porta l’inventore dell’afrobeat in scena all’Estate romana. E inizia a fare avanti e indietro con la Nigeria restandone soggiogato. «Era come se Lagos fosse la donna della mia vita, me la portavo ovunque ma lei non mi voleva», racconta in una scena del film di Vicari. Che proprio da questo amore ha preso le mosse.

 

«Quando Renata Di Leone, la moglie di Michele, mi ha parlato dei suoi diari e del suo film mai fatto, ho capito che era un’occasione unica», ricorda Vicari. «Per una volta potevo raccontare un occidentale che si lascia letteralmente invadere da un’altra cultura. Una cosa preziosa, oggi che siamo nuovamente dominati da una mentalità neocoloniale. Tanto più che Avantario non aveva una coscienza politica strutturata ma come artista e organizzatore culturale stava nel flusso, anzi nel Fluxus, fra i suoi amici c’era Nam June Paik, genio della videoarte. Quindi si avvicina all’Africa non per ideologia ma per amore di una musica e di uno stile di vita. A conferma che meno ideologie si mettono in mezzo, più le culture si mescolano. Poi c’era l’epoca. Tornare a quegli anni significa recuperare una vitalità perduta. Ormai siamo abituati a una quiete mortifera. Il dibattito è azzerato, si litiga ma non ci si confronta. Tra Michele e Fela invece passa di tutto: il rapporto fra musica e rivoluzione, i mutamenti antropologici in Occidente, il travolgente desiderio africano di essere finalmente liberi».

 

Per Avantario non erano infatti solo rose e fiori. Se Michele non riuscì mai a fare il film (che Bernardo Bertolucci era pronto a produrre), fu anche perché il suo dio non voleva. «Kalakuta doveva restare un luogo segreto», ragiona Vicari: «Come tutte le star, Fela sorvegliava la propria immagine. Quella festa di compleanno con il toro sgozzato, i piedi bagnati nel sangue, le “canne” giganti, non era facile da mostrare all’esterno. Il giudizio era in agguato, la riservatezza obbligatoria».

 

Ma il punto centrale è un altro. «È il rapporto maestro/allievo fra l’artista-sacerdote e il giovane venuto dall’Italia. Fela prima si infuria e vieta a Michele di filmare Kalakuta. Poi fanno pace, promette di aiutarlo a fare il film, ma non è mai il momento di parlarne. Proprio questo continuo rimandare però innesca uno straordinario processo di crescita. Grazie a Fela, Michele diventa un uomo. Sistematizza le sue esperienze, studia i film fatti in Africa da Jean Rouch, in particolare “Les maîtres fous”, da videoartista diventa documentarista, assumendo su di sé una relazione col reale che prima non sospettava neanche di avere. Per questo, tra le immagini girate a Lagos ho scelto le più intime. Il film è un romanzo di formazione. Lo dice un po’ seccato lo stesso Avantario: ma come, prendo tutti questi aerei, partecipo alla vita della comunità, divento lo zio di tuo figlio, perché non posso girare? Così facendo, invece, Fela lo prende per mano e lo conduce a una forma di conoscenza più alta. Alla fine Michele scopre l’animismo, la sua è una vera e propria trasformazione, tanto che il suo rapporto col musicista prosegue anche dopo la morte di Fela, nel ’97. Io sono laico, non sono certo incline a credere in altri mondi, però il percorso di Avantario è molto suggestivo. E poi», sorride Vicari, «nel paesino di montagna da cui vengo - Collegiove, in provincia di Rieti - i fantasmi ci sono, altro che!».

 

Arrestato la prima volta che venne in Italia, nel 1980, con le sue 27 mogli e i 43 chili di marijuana che si era portato dietro, Fela ci ha messo più di quarant’anni ma si è preso la rivincita. Chissà se il suo fantasma rivoluzionario avrebbe fatto visita anche al film su Fela Kuti che Steve McQueen, il regista di “12 anni schiavo”, vuole girare da un buon decennio. Per ora è sicuramente venuto a trovare Vicari. E il suo amico Michele.

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