Sbruffone e preoccupato solo della sua vittoria. Lo scrittore russo in esilio paragona il leader de Cremlino a un bulletto. «La nostra Storia? Una giostra. Una favola crudele»

Un romanzo per tentare di capire la mente di Putin e le ragioni della disumana tragedia in Ucraina: è “Der Grosse Gopnik”, l’ultima opera di Viktor Erofeev, pubblicata in tedesco da Matthes & Seitz. Lo zar del Cremlino appare nelle vesti del “gopnik”, come in russo si chiama il coatto di periferia, lo sbruffone mafioso.

 

«Ho scritto questo romanzo per capire le ossessioni di Putin e del piccolo gopnik che è dentro ognuno di noi», spiega lo scrittore russo, oggi in esilio a Berlino. In questa intervista Erofeev, autore di bestseller, e conosciuto in Italia per i libri “La bella di Mosca” (Rizzoli) e “Il buon Stalin” (Einaudi), racconta del suo rapporto di amore-odio con la madrepatria: «Con l’infinito delirio della storia russa», dice. Ma anche il suo amore per Dostoevskij, «che meglio di ogni altro ci ha rivelato tutta l’imperfezione umana».

 

Proviamo a entrare nella mente di Putin: perché, secondo lei, ha scatenato la guerra contro l’Ucraina?
«Perché si annoiava. Putin è sempre stato un uomo di guerra. Ecco perché il mio romanzo si intitola, in tedesco “Der Große Gopnik”, il grande Gopnik”. In russo, gopnik è il piccolo teppista, un coatto violento, un hooligan pieno di sé e di una voglia irrefrenabile di vendicarsi. La sua è una vita all’insegna di una parola d’ordine: “Alla fine vincerò io!”. Prima della guerra, Putin si annoiava, in Russia tutti si prostravano ai suoi piedi: tutti sono i suoi schiavi».

 

Scusi, Erofeev, ma visti i milioni di morti e feriti in Ucraina non le pare un’interpretazione un po’ grottesca della guerra?
«Non più di quanto sia grottesca la sua mente. Putin ha scatenato una guerra senza alcuna vera ideologia né strategia. Ogni volta che si prova a chiedere il perché di questa tragedia, Putin e i suoi portavoce s’inventano qualcosa di nuovo».

 

È una guerra contro l’Ucraina, contro l’Europa o contro l’intero Occidente e i suoi valori?
«Vede, nella mente di Putin scorre un doppio film. Quando era nel Kgb, a Dresda, a lui piaceva stare in Germania, perché di certo alla Cina preferisce l’Europa. Ma da bravo gopnik russo diffida dell’Europa. L’Europa è più sviluppata, è piena di idee e di tecnologie. Quando gli ucraini hanno reclamato l’indipendenza, ha avvertito quanto la loro deriva occidentale fosse pericolosa, perché mostrava tutta la debolezza della Russia. Putin vive in un mondo arcaico, con valori primitivi».

 

Stalin guida le masse con una carta del mondo alle spalle

 

Può spiegarci meglio cosa intende quando parla di valori arcaici?
«Dal suo punto di vista, l’Ucraina è una moglie infedele, che prima si è rivolta all’Europa, e ora si è trovata un amante americano. L’impulso primordiale di Putin è di punirla per il tradimento e obbligarla con le bombe a ridiventare sua. Molto più complicato è spiegare ai russi e al mondo il perché di questa tragica guerra per il suo presunto onore ferito».

 

Ci pensano le fake news e la propaganda ultranazionalista del Cremlino…
«La prima ondata di fake news raccontava che l’Ucraina è russa da sempre. Poi dal Cremlino hanno lanciato dichiarazioni metafisiche, e la guerra in Ucraina si è trasformata in una crociata religiosa. Noi russi siamo i buoni, voi ucraini e occidentali i cattivi. Noi russi siamo i santi, e voi i nazisti del ventunesimo secolo, anzi i satanisti e, Israele compreso, i figli di Satana sulla Terra».

 

Che ruolo ha, nell’educazione sentimentale di Putin, la carriera nel Kgb?
«Il giovane Vladimir era un ragazzo piccolo, infelice e carico di complessi. E il Kgb è stato fondamentale, un recinto sacro che lo proteggeva da ogni offesa. I metodi del Kgb sono stati per lui una scuola di sopravvivenza e di felicità. Per tutta la vita il Grande Gopnik non ha desiderato altro che sentirsi protetto. E oggi, isolato nei suoi bunker, è questa idea o paura di fondo che lo ispira».

 

Parliamo di russi, della loro reazione a una guerra che dura da due anni e che ha causato sinora la morte di oltre 350 mila loro soldati. Perché Putin ha ancora tanto consenso?
«Perché non è come te e come voi lettori. Non conta i soldati caduti, non gli interessa chi è vivo o morto. Per lui conta solo la vittoria delle sue armate. Da questo punto di vista è totalmente disumano. Ma attenzione, se ho scritto il mio romanzo è perché la storia di Putin e della dittatura russa ci riguarda tutti da vicino: ognuno di noi porta dentro di sé un piccolo gopnik».

 

È anche la tesi del Grande Inquisitore nei “Fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Se in Russia c’è tanto bisogno dell’Uomo forte è perché siamo dei “ribelli spaventati”, dice a Cristo l’Inquisitore. È questa paura che oggi spinge i russi a una devozione quasi religiosa per lo Zar del Cremlino?
«Ho letto molto Dostoevskij e sono giunto alla conclusione che, più che ribelli senza coraggio, siamo vittime della nostra idea di umanità. Crediamo cioè che gli uomini siano in sé buoni e che solo le circostanze storiche e sociali li rendano cattivi. Ok: e chi ha creato le cattive circostanze? Noi uomini, appunto. Per questo il buonismo alla Rousseau è una bella idea, ma purtroppo non quadra con la nostra imperfettissima realtà».

 

Alla base del suo romanzo su Putin c’è un’idea piuttosto scettica della natura umana?
«Sì, “Der Große Gopnik” è un romanzo sull’imperfezione umana. L’idea maniacale di Putin è che, punendo la traditrice ucraina, la Russia ritorni più potente e perfetta. La nostra imperfezione, invece, sta nel fatto che, con tutte le tecnologie digitali, conosciamo noi stessi meno che nell’antica Grecia. Insomma, non viviamo solo un’epoca di guerre, dittature e Covid, ma afflitti da una micidiale epidemia di stupidità. E la dittatura di Putin che altro è se non il trionfo della stupidità e della radicale imperfezione umana?».

 

A proposito di vizi e virtù umani, un altro dei suoi punti di riferimento è de Sade.
«Ricordo che quando il mio primo romanzo, “La bella di Mosca”, fu pubblicato in Italia, qualcuno commentò che mentre in Russia tutti studiavano Lenin e Marx, Viktor Erofeev leggeva Proust e de Sade. Sì, sono un allievo della filosofia del divino Marchese, che ha messo a nudo le imperfezioni e le tante ipocrisie della nostra vita».

 

Prima dell’amara lezione di de Sade anche Étienne de la Boétie ha mostrato la tendenza alla genuflessione nel suo “Discorso sulla servitù volontaria”. È la stessa tendenza che spiega la devozione per il potere assoluto di Putin?
«Sì, il “Discorso” di Boétie va in questa direzione, come d’altronde quello di Blaise Pascal. Tanti geni della tradizione francese hanno fatto luce sui lati più infingardi dell’uomo. Ma è davvero molto scomodo accettarci come creature imperfette. Dostoevskij invece ci ha mostrato tutta l’imperfezione dei quattro fratelli Karamazov, Smerdjakov compreso. Ma questa è letteratura, finzione: nella vita reale l’imperfezione ci divora».

 

Torniamo alla politica russa. Una storia fatta di zarismo, marxismo-leninismo, stalinismo e oggi di “putinismo”...
«In Russia non abbiamo avuto una vera storia, ma una giostra che gira come in un luna park per bambini, restando sempre allo stesso posto, solo con attori diversi. Quella russa più che Storia è una favola crudele, tanto che dopo lo zarismo e dopo Stalin, sul carosello è salito Putin, ma la giostra è ferma allo stesso punto. Ecco perché le teorie del marxismo in Russia non funzionano. Il razionalismo del marxismo non fa presa sulla realtà russa che non è affatto razionale».

 

Viktor Erofeev

 

Non per niente nel suo romanzo autobiografico, “Il buon Stalin”, scrive come il mito di Stalin attraversi sino a oggi la società russa. La storia della Russia è segnata dunque dall’infezione eterna di Stalin?
«Sì, e anche il virus dello stalinismo è ben poco razionale. Se mettiamo insieme tutti questi virus della nostra storia, si capisce perché abbiamo scrittori, musicisti e pittori così importanti: in Russia tocchiamo l’infinito dell’imperfezione, della crudeltà e dell’idiozia umana. Come la metafora di Stalin, che nelle persone vedeva alberi, i cui rami dovevano essere potati».

 

Nei suoi romanzi parla anche di “un totalitarismo magico”, la variante russa del totalitarismo…
«Mi è venuto in mente di ribattezzare il nostro totalitarismo come “magico” quando scrivevo “Il buon Stalin”. Da bambino percepivo questa sorta di magia nel mio ambiente a Mosca. Sono cresciuto fra persone che credevano nel sistema sovietico, nel comunismo come una cosa magica. Putin sta continuando a preservare il mito di Stalin, ma non è un credente. Al mondo non può certo proporre il suo sistema come una magia, ma solo sentirsi costretto a conquistarlo con le bombe. È questa la netta differenza col mondo sovietico: Putin non ha alcuna idea del futuro. L’Occidente sarà oggi anche molto debole, ma chi ci vive ha un futuro personale. Nella Russia di Putin invece alla gente manca del tutto l’orizzonte del futuro».

 

Fëdor Dostoevskij

 

Il sovranismo oggi sta conquistando mezza Europa. Il virus più pericoloso del XXI secolo è il nazionalismo?
«Che la febbre del nazionalismo sia oggi così diffusa è quasi logico in questa era di stupidità estrema. L’idea che la tua nazione sia la prima e migliore delle altre fa sempre presa sui più semplici. Ed è questa la follia della democrazia. In tutti i Paesi europei i nuovi sovranisti hanno vinto le elezioni in modo democratico. È quel che intendevo quando dicevo della difficoltà di accettare le proprie imperfezioni, e che tutti noi, più o meno, aspiriamo ad essere un piccolo gopnik, un mafiosetto col coltello in tasca».

 

Nel romanzo c’è una definizione meravigliosa di Putin: sarà pure mafioso, macho e razzista, ma soprattutto “lui non è un lettore”. Putin odia gli intellettuali.
«E una volta ha detto di amare la filosofia di Kant! Povero Kant, ha persino dato dei soldi per ricostruire la casa di Kant a Kaliningrad. Ricordo una sera, nel 2005 all’Eliseo a Parigi. Ero lì con altri scrittori invitati da Chirac e Putin. Il presidente francese elogiò il mio libro, “Il buon Stalin”, accanto a un Putin che aveva già iniziato a reprimere noi scrittori. Poi lui salì sul podio, nominò Balzac, Dumas, e basta. Finita la discussione mi avvicinai a Chirac e gli parlai in francese. Putin mi prese da parte, si piazzò a gambe aperte nella sua posa da guardia del corpo e cominciò a urlare: “Perché gli hai parlato in francese?”. Temeva forse che sparlassi di lui col presidente francese. Capisce, anche questa scena fa parte del carosello della storia russa».