La premier si mostra più o meno affettuosa coni grandi della Terra. E manda messaggi di posizionamento piuttosto ambigui. Infatti ora bisogna capire se resterà vicina al blocco europeo o se preferirà Donald Trump

Caro direttore,

 

da un po’ ci si chiede: Giorgia Meloni, nel caso, abbraccerà pure Donald Trump? Non è cosa da poco, anzi rischia di diventare la questione chiave della sua politica estera, che poi è a fondamento di tutta una strategia politica. Fatta anche di baci e abbracci. Andiamo per ordine.

 

In principio fu Guido Crosetto. Qui non si parla di spiate e dossieraggi (presunti), ma di quel lontano 17 dicembre 2012 quando il Gigante prese in braccio la Bambina mimando, da destra, Roberto Benigni ed Enrico Berlinguer. E mostrando a tutti che nella leadership di Meloni il linguaggio del corpo sarebbe stato determinante. Giorgia in effetti bacia e abbraccia un sacco, non eravamo abituati a tanto sfoggio di affettuosità, in situazioni e con personaggi i più disparati: a Palazzo Chigi con un trionfante Jannik Sinner, negli spogliatoi della nazionale di rugby, o sul palco di Atreju con il tecno-capitalista Elon Musk, con i bambini di Addis Abeba o il 93enne Sami Modiano. Messaggi politici e d’immagine. Ancora di più con i grandi della Terra: in questo caso l’abbraccio funge da plastica manifestazione di una stima internazionale che si vuole largamente conquistata, ma finisce anche per confermare un’irrisolta ambiguità.

 

L’abbraccio, per esempio, è caldo con Edi Rama, partner albanese, e si capisce; più formale con l’indiano Narendra Modi; affettuoso quanto basta con Rishi Sunak ed Emmanuel Macron; d’altra parte assai partecipato con l’ungherese Viktor Orbán, profeta del sovranismo, e pure con l’anarchico capitalista Javier Milei, super-trumpista della prima ora; però è ripetuto e sentito fino alla familiarità con Volodymyr Zelensky, di cui è grande sostenitrice, e con l’amica (fino in fondo?) Ursula von der Leyen, sulla quale si gioca la delicata partita del voto europeo. Fino al trionfo dello Studio Ovale dove Joe Biden l’ha accolta intonando “Georgia on my mind”: abbracci con colonna sonora.

 

Ambiguità. Che a ben vedere è nel codice genetico di questa nuova destra. Meloni ha vinto le elezioni sfidando il blocco moderato, sventolando la bandiera antieuropea, cavalcando la deriva nazionalista. Ma appena è arrivata a Palazzo Chigi ha sposato la dottrina atlantista, stretto un rapporto sincero con gli Usa di Biden e accettato le regole del club europeo, a cominciare da quelle finanziarie. È stata abile. Un po’ per scelta meditata: meglio parlare di Kiev che di tasse e crescita del Pil; e un po’ perché costretta dalla necessità di dover governare un Paese – una Nazione – condizionato da un debito monstre, al centro del Mediterraneo e con ingenti rapporti politici e d’affari con l’Europa.

 

Vedremo presto se questo ambiguo saltellare di qua e di là ripagherà Meloni di tanta fatica. Gli appuntamenti che l’aspettano sono assai delicati. Da Bruxelles potrebbe venire qualche problema di ruolo e di posizionamento, se il cartello von der Leyen dovesse vincere a danno dei conservatori amici di Giorgia. Ma è poca cosa a confronto della sfida americana, certamente la più importante, determinante per gli equilibri di un mondo in guerra che condizionano pure la povera Italietta. Finora la premier è stata molto prudente e, a differenza di Matteo Salvini, non ha mai dichiarato di sostenere The Donald, anzi da quando è al governo non ha mai pronunciato il suo nome. Ma se davvero il tycoon tornerà alla Casa Bianca, Meloni non potrà più tergiversare. Dovrà cercare nuove altalene. O magari uscire dall’ambiguità e scegliere se restare al fianco di Zelensky o diventare la cocca di Trump. E correre ad abbracciarlo.