Editoriale

Il fattore C. salverà il governo di Giorgia Meloni da Moody’s e Fitch

di Alessandro Mauro Rossi   23 ottobre 2023

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Giorgia Meloni

Una guerra così geograficamente vicina convincerà gli ispettori a chiudere un occhio sul nostro debito

La fortuna è un po’ come il coraggio di Don Abbondio. Se non ce l’hai nessuno te la può dare. Napoleone preferiva i generali fortunati a quelli bravi. C’è chi sulla fortuna ha costruito una… fortuna come Arrigo Sacchi, allenatore del Milan e della Nazionale di calcio, per cui il “ fattore C” è sempre stato l’alter ego del suo talento. Oggi anche Giorgia Meloni viene definita fortunata. Motivo? La guerra in Palestina.

La sintesi è tutta qua: stanno per arrivare in Italia gli ispettori delle agenzie internazionali di rating. Notano gli analisti più attenti che il debito italiano potrebbe essere declassato rischiando di finire tra i “titoli spazzatura” producendo un danno enorme al Paese. Il primo giudizio, quello di Standard & Poor’s, è stato emesso, poi ci sarà l’appuntamento del 10 novembre con Fitch e quello più importante il 17 novembre con Moody’s, la più severa delle tre agenzie di rating. In una situazione normale ci sarebbe stato da tremare, ma appunto una guerra così geograficamente vicina e con l’Italia politicamente così esposta, convincerà gli ispettori anche più intransigenti a chiudere un occhio e al massimo rimarcare gli outlook negativi, ossia le previsioni grigie sul futuro del Paese, ma niente di più.

L’Occidente non può permettersi in un momento storico come questo che un Paese strategicamente importante come l’Italia si ritrovi in ginocchio. E considerato che le agenzie di rating sono americane, l’occhio lo chiuderanno più che volentieri. Così Meloni e il suo governo potranno andare ancora avanti per di più sulle ali di una finanziaria piuttosto popolare (asili nido e soldi in più in busta paga) nonostante tutte le eccezioni legittime e fondate delle opposizioni soprattutto sulla sanità.

Sullo sfondo, anzi in primo piano, resta però il problema della guerra in Palestina in tutta la sua drammaticità. Gli ultimi eventi, con il missile esploso sull’ospedale di Gaza che ha causato centinaia di morti e centinaia di feriti, e con Israele e Hamas che si incolpano a vicenda, dimostrano ancora una volta, come accade per l’Ucraina, che i morti non hanno nazionalità o religione. Sono morti e basta. E spesso, sempre più spesso, civili inermi. Non è possibile che si continui a morire da una parte e dall’altra senza poter vedere la fine di queste carneficine. Le diplomazie di tutto il mondo sono al lavoro per cercare di fermare il massacro, ma ogni giorno che passa il percorso del dialogo trova sempre un ostacolo in più, spesso piazzato proprio dai contendenti come, appunto, nel caso dell’ospedale di Gaza che ha creato reazioni (violente) in tutto il mondo arabo e non solo.

In varie sedi si torna a parlare del combinato disposto di due popoli, due Stati, dopo anni che nessuno ha fatto niente per raggiungere questo obiettivo voluto dall’Onu. «I palestinesi sono il peccato originale di Israele», sosteneva Shimon Peres, il laburista che era stato il braccio destro di David Ben Gurion, il fondatore dello Stato ebraico, «perché nel 1896, quando Theodore Herzl, l’ideatore del sionismo, coniò lo slogan un popolo senza una terra va a una terra senza un popolo, su quella terra un popolo c’era già, erano gli arabi», spiegava Peres. E all’inizio gli arabi accolsero pacificamente gli ebrei. Poi, diciamolo francamente, le grandi potenze occidentali, hanno favorito l’espansionismo ebraico. L’estremismo islamico ha fatto il resto. E oggi siamo dove siamo. Ma siamo arrivati al punto di non ritorno. Solo un’azione diplomatica combinata di tutte le grandi potenze mondiali può far iniziare un processo di pace militare. Difficilmente di pacificazione, perché dopo quello che sta succedendo c’è il rischio fondato che l’odio e la vendetta continuino per anni ad avere il sopravvento sulla ragione.