Il ritratto
Matteo Piantedosi, il prefetto della Destra ministro per anomalia
Le manganellate agli studenti, se di sinistra. La mano dura con i migranti. La raffica di identificazioni. Così il ministro dell’Interno esegue con zelo il programma
L’azione delle nostre forze di polizia, istituzioni fondamentali di un Paese a democrazia matura come il nostro, è orientata unicamente a garantire che le manifestazioni pubbliche si svolgano in condizioni di piena sicurezza». Matteo Piantedosidixit alla Camera, 21 febbraio 2024. Ma sono parole tali da indurci a dubitare quantomeno del fatto che il governo del quale fa parte sia consapevole di trovarsi a gestire una «democrazia matura». Perché, non ce ne voglia il ministro dell’Interno Piantedosi, ma in una piena maturità democratica difficilmente uno come lui sarebbe ministro dell’Interno.
Non per incapacità: ministri inadeguati, nel nostro Paese, non mancano mai. Ma semplicemente perché un prefetto ministro dell’Interno, in una democrazia davvero matura, è nota ben più che stonata. Non per nulla Matteo Piantedosi da Pietrastornina, provincia di Avellino, è il primo prefetto nella storia repubblicana ad avere l’incarico di ministro dell’Interno in un governo politico a tutto tondo.
Prima di lui nel 1995, governo tecnico di Lamberto Dini, ecco il prefetto Giovanni Rinaldo Coronas, già capo della polizia. Nel 2011, governo tecnico di Mario Monti, ecco la prefetta Annamaria Cancellieri. E nel 2019, secondo governo di Giuseppe Conte che politico lo è, ma in una situazione assolutamente particolare di confusione istituzionale, ecco la prefetta Luciana Lamorgese, confermata poi dal governo tecnico di Mario Draghi.
La ragione per cui ai prefetti sia stato affidato pressoché solo dai governi tecnici il delicatissimo incarico al Viminale è evidente. Non potendo assegnare quel ruolo a un politico, si sceglie pro tempore una figura informata dei fatti. Finita l’emergenza, si torna alla normalità di un ministro politico. Come dovrebbe essere ora che al posto di un esecutivo tecnico c’è un governo scelto dagli elettori nella pienezza dei suoi poteri. E la presidente del Consiglio che proclama: «Basta con gli inciuci, basta con i governi tecnici!».
Per ovvie ragioni quello di ministro dell’Interno è proprio l’incarico governativo più politico. Infatti da Oscar Luigi Scalfaro a Francesco Cossiga, da Roberto Maroni a Giorgio Napolitano, da Antonio Segni ad Antonio Gava, per finire con Giuliano Amato, Angelino Alfano e Marco Minniti, è sempre stato appannaggio di figure politiche influenti o comunque di riferimento nel loro partito. Dal 1948 ben cinque presidenti della Repubblica su 11 sono transitati dal Viminale.
Il prefetto ha invece un compito subordinato ben diverso: quello di rappresentare in un determinato territorio il potere dello Stato centrale, ed è anche il responsabile ultimo dell’ordine pubblico. Dipende direttamente dal ministro dell’Interno, che lo nomina e ne determina la carriera. Ne consegue che quando il ministro è un prefetto si trova oggettivamente in un clamoroso conflitto d’interessi. Nel caso di Piantedosi, poi, addirittura multiplo, considerando che pure sua moglie Paola Berardino è prefetta. A Grosseto. Dove per inciso ha autorizzato l’intitolazione di una strada al leader missino Giorgio Almirante fortemente voluta dall’amministrazione comunale di destra.
L’ha nominata nel luglio 2021 durante il governo Draghi l’ex ministra e prefetta Luciana Lamorgese, di cui peraltro Piantedosi è stato capo di Gabinetto all’epoca del secondo governo Conte. Il rapporto fra Piantedosi e Luciana Lamorgese non è risultato però idilliaco come quello che l’attuale ministro ha avuto con Matteo Salvini, di cui è stato il factotum e non un semplice capo di Gabinetto. Così un bel giorno di agosto del 2020 la ministra lo libera dall’incombenza ministeriale e lo nomina prefetto di Roma, giusto un annetto prima di promuovere la sua consorte. Aggiungendo un tassello ulteriore a un curriculum da predestinato.
Nel 2010 il sindaco di Bologna Flavio Delbono si dimette improvvisamente e il Viminale spedisce al Comune una commissaria prefettizia: la futura ministra dell’Interno Annamaria Cancellieri. Che nomina il viceprefetto del capoluogo emiliano Piantedosi suo vice. L’incontro è una folgorazione. «I due», racconta Carmelo Caruso sul Foglio, «diventeranno amici tanto che oggi l’ex ministra a tutti ripete “è uno dei pochi cavalli di razza che ho conosciuto”». Poi il 3 agosto 2011, mentre l’ultimo governo Berlusconi sta per franare, il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni gli dà i gradi di prefetto. Un anno ancora e Annamaria Cancellieri, nel frattempo diventata ministra, lo fa vicecapo della polizia. Cinque anni dopo tocca invece a Marco Minniti rimandarlo a Bologna, come prefetto.
Chi conosce bene Piantedosi dice che è democristiano. Un altro democristiano del calibro di Gianfranco Rotondi, ora eletto con Fratelli d’Italia e che con Matteo ha frequentato lo stesso liceo di Avellino, ricorda che il di lui padre Mario Piantedosi era amico di Fiorentino Sullo. Ovvero il leader irpino della sinistra Dc che Ciriaco De Mita avrebbe spodestato. E a quel mondo Piantedosi junior è rimasto legato. A marzo 2023 un comunicato stampa del Viminale informa che il ministro è ad Avellino per la celebrazione in ricordo dell’ex capo della polizia Antonio Manganelli, prefetto e avellinese. Lo stesso giorno presenzia anche al «ricordo solenne» del leader irpino democristiano Gerardo Bianco, organizzato dalla Fondazione Fiorentino Sullo. Il 30 dicembre 2023 l’Ansa dà notizia che il sindaco di Avellino Gianluca Festa ha conferito a Matteo Piantedosi la cittadinanza onoraria.
In un certo immaginario politico l’aggettivo «democristiano» è sinonimo di capacità di adattamento a ogni frangente. Concetto perfettamente applicabile a Piantedosi. Al fianco di Salvini ne ha concretizzato le direttive con scrupolo addirittura superiore alle aspettative. Finendo indagato assieme al ministro dalla Procura di Agrigento per sequestro di persona, abuso d’ufficio e arresto illegale (accuse poi evaporate a Palermo) in relazione alla vicenda della nave militare “Ubaldo Diciotti” cui viene impedito per giorni di sbarcare i migranti.
E una volta nominato ministro nel governo di destra di Giorgia Meloni interpreta ancor più diligentemente il nuovo corso. Debuttando con il provvedimento sui rave party, e quindi con nuove norme anti-migranti presentate a Milano in una conferenza stampa nella quale riesce a coniare un neologismo inquietante. Quello del «carico residuale» («carico che ne dovrebbe residuare» è la frase esatta, ndr) per definire gli esseri umani non autorizzati a sbarcare nei porti italiani e da rispedire dall’altra parte del Mediterraneo. Per non parlare delle sanzioni contro le proteste sul clima da infliggere ai militanti di Ultima Generazione.
Quanto alla gestione dell’ordine pubblico, le cronache dicono tutto. Fin da quando, il 9 ottobre 2021, neofascisti e no-vax assaltano la sede della Cgil a Roma. Quel giorno Piantedosi non è ancora ministro, ma prefetto di Roma. Mentre il Viminale è in mano alla prefetta Luciana Lamorgese. Invece Piantedosi è ministro dell’Interno, e da più di un anno, mentre uno squadrone di neofascisti si presenta indisturbato a commemorare con saluti romani i giovani missini assassinati nel 1978 davanti alla sede di via Acca Larentia a Roma.
Ma per capire come abbiamo fatto a scivolare così rapidamente in una situazione che sfocia regolarmente in cariche e pestaggi come nei terribili anni Settanta, però decisamente a senso unico, bisogna andare più indietro nel tempo. Un prefetto ministro dell’Interno in un governo politico rappresenta senza ombra di dubbio una clamorosa anomalia, esito di un percorso preoccupante iniziato almeno sei anni fa. Dal primo governo di Giuseppe Conte, quando già si mormorava che il vero ministro non era Salvini ma Piantedosi, la politica ha consegnato il ministero dell’Interno al suo apparato. Fatto innanzitutto di prefetti, ma anche di questori sempre più potenti che ne gestiscono le funzioni politiche in modo autoreferenziale, affrontando questioni complesse come le manifestazioni di dissenso in piazza attraverso scorciatoie incompatibili con la dialettica democratica. Le manganellate, appunto.
Ed è gravissimo che la politica, non soltanto la destra attuale ma pure la sinistra, al governo per ben tre anni dal 2019 al 2022 con un ministro dell’Interno prefetto, si sia sempre rifiutata di prendere atto del rischio insito in questa delega in bianco. Dal 5 settembre 2019, senza soluzione di continuità, prefetti e questori rispondono a un collega anziché alla politica. Anche se Piantedosi, intervistato dal Foglio, tiene a precisare che «non può esistere un ministro non politico». Ha perfettamente ragione. Ma lui è un politico? Se davvero lo è, l’anomalia è ancora più grande.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. La bacchettata senza precedenti del presidente della Repubblica Sergio Mattarelladopo il pestaggio di Pisa dovrebbe far scattare l’allarme. Se non qualcosa di più. Invece nel governo Meloni fanno spallucce. A cominciare dalla premier che non mostra alcuna reazione. Come fosse tutto normale.
Se è normale che un prefetto controlli il Viminale, allora è normale mandare la Digos a identificare un signore che osa dire dal loggione della Scala: «Viva l’Italia antifascista». È normale spedire a identificare chi va a posare un fiore in ricordo di Aleksej Navalny dei poliziotti che a quanto pare nemmeno capiscono in significato di quel gesto. È normale anche sostenere che identificare i passanti non è parte di un disegno «per reprimere il dissenso»: quando si scopre, come ha rivelato L’Espresso, che nel 2023 sono state compiute in Italia quasi 54 milioni di identificazioni di polizia a fronte di 49 milioni di abitanti maggiorenni. Con una escalation impressionante. Nel 2022 le identificazioni erano state 46,9 milioni e l’anno precedente 35,3 milioni. In due anni sono aumentate del 53 per cento.
Normali anche le manganellate ai minorenni che manifestano, a sentire certi commenti il giorno dopo i fatti di Pisa. Fatti seguiti ad altri fatti analoghi di Torino, di Roma, di Firenze… Tanto che a pensare male si potrebbe sospettare un accanimento sui giovani, meglio ancora se ragazzini indifesi. Poi i cattivi pensieri prendono la forma dell’ultimo rapporto di Antigone secondo cui, al 31 gennaio 2024, i minori incarcerati sono 516. Mai così tanti negli ultimi dieci anni. Ma tutto normale…