Il 26 febbraio 2023 la tragedia costata 94 morti, anche a causa dei soccorsi mancati. Dopo quella sconfitta dell’umanità, dall'esecutivo solo promesse al vento e interventi falliti tra decreti, annunci e accordi mai applicati. E l'inizio della parabola il ministro dell'Interno Piantedosi

L’ultima picconata alla politica migratoria del governo è arrivata proprio in questi giorni, con la sentenza della quinta sezione della Corte di Cassazione, che dice essere un reato riportare in Libia, o consegnare alla sua Guardia Costiera, i migranti salvati in mare perché quello «non è un Paese sicuro», e quindi smentisce il Memorandum Italia-Libia del 2017, che Giorgia Meloni ha rinnovato solo un anno fa. L’ultimo colpo alla sua credibilità politica arriva dai familiari delle vittime della strage di Cutro: ai superstiti non è stato garantito il ricongiungimento con i parenti che vivono in Europa, a molti neanche il diritto di tornare in Italia per commemorare i i loro morti. «Quando l’avevamo incontrata a Palazzo Chigi ci aveva detto di considerarla una cosa già fatta», ha raccontato uno di loro. Con questo passo per così dire trionfale, in attesa magari di un sussulto di buonsenso last minute, ci si avvicina all’anniversario della strage di Cutro, 94 migranti di cui 35 bambini annegati a duecento metri dalla spiaggia crotonese, un numero imprecisabile di dispersi, dopo il rovesciamento del caicco Summer Love, per l’impatto con una secca all’alba del 26 febbraio, dopo molte ore dall’avvistamento la sera prima da parte di Frontex di una barca «senza giubbotti di salvataggio, con la linea di galleggiamento bassa, una forte risposta termica dalla stiva». Una barca che nessuno ha soccorso: l’ultimo atto (provvisorio) nel rimpallo delle responsabilità tra governo italiano, Guardia Costiera, Guardia di finanza e Frontex è un rapporto dell’Ufficio per i Diritti fondamentali dell’Agenzia europea, secondo cui nella sala di monitoraggio quella sera c’erano anche due funzionari italiani. Una strage che non si può chiamare naufragio. Perché la causa è nell’assenza di un intervento e, come dice uno degli avvocati dei familiari delle vittime, «se ci fosse stata una barca di soccorso non ci sarebbero stati tutti quei morti».

 

Un’alba di morte che non ha lasciato niente uguale a prima, senza per questo migliorarlo. Non le politiche di una maggioranza che, per due partiti su tre, Lega prima e Fratelli d’Italia poi, ha prosperato agitando l’emergenza migranti. Non il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, già capo di Gabinetto di Matteo Salvini al Viminale. Non Giorgia Meloni che, nonostante i molti spot precedenti e soprattutto successivi, durante la conferenza stampa di inizio 2024 ha ammesso – senza chiamarlo naufragio nemmeno lei – che dell’intero anno di governo «politicamente parlando Cutro è stato il momento più difficile, nel senso che 94 persone che muoiono e l’accusa che è colpa tua sono una cosa che pesa». Al di là dei risultati dell’inchiesta aperta a Crotone, dove si indaga su omissione di soccorso e disastro colposo, al di là dell’unica assurda condanna del turco di trent’anni che si pagò la traversata mettendosi a disposizione come «meccanico di bordo» ed è stato condannato come scafista a 20 anni e 3 milioni di danni (un quarto gliel’ha chiesto Palazzo Chigi per danno d’immagine) niente da quel momento in poi è girato per il verso immaginato da una leader politica e da una maggioranza che proprio sulle politiche migratorie aveva tanto puntato.

 

 

Proprio quel fronte ha registrato, al contrario, il più evidente fallimento. Dal numero dei migranti arrivati in Italia, oltre 157 mila, una volta e mezzo i 95 mila del 2022 – l’opposto del «blocco navale» da campagna elettorale che fu, ma per incapacità a realizzarlo, non per un qualche ravvedimento politico – fino al flop delle iniziative legislative prese di volta in volta per dare un segnale di reattività, il segno come dice la premier «che non siamo cambiati». Una realtà che reagisce al contrario delle intenzioni. Come fosse la furia di una maledizione. O il segno che quella strada, quella di Meloni, non va in nessun posto.

 

Un anno fa il governo, insediato da quattro mesi, arrivava a Cutro fresco di decreto Piantedosi che limitava l’attività delle navi umanitarie. La norma di gennaio, convertita in legge due giorni prima, aveva già reso più difficili i salvataggi in mare da parte delle ong, sottoposte a una serie minuta di prescrizioni aggiuntive (e quindi di fermi e multe), obbligate a navigare dopo i recuperi in mare verso il «porto sicuro assegnato», sistematicamente lontano dalle rotte migratorie (ad esempio Sos Méditerranée ha calcolato che nel 2023 la Ocean Viking ha navigato due mesi in più solo per raggiungere i porti lontani).

 

Il ministro dell’Interno, che aveva già parlato di «carico residuale» a proposito degli «sbarchi selettivi» ordinati nei primi giorni del novembre 2022 dalle navi Humanity 1 e Geo Barents, si presentò alla conferenza stampa del 27 febbraio con parole che vale la pena ricordare: «L’unica cosa che va detta è: non devono partire. Io non partirei se fossi disperato perché sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo, ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso». In quel momento i morti accertati erano 59. Il giorno dopo l’uomo che forse voleva imitare John F. Kennedy aggiunse: «La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo le vite dei propri figli». Dopo quei giorni, travolto dalle polemiche, Piantedosi si astenne da commenti. «Ho deciso di fare come Scelba», confidava a giugno citando un predecessore decisamente diverso da lui. Divenne insomma il ministro-prefetto, lasciando da parte, forse per sempre, le ambizioni più spiccate di diventare un punto di riferimento forte del governo Meloni.

 

È sempre Cutro che conduce la presidente del Consiglio nel giorno comunicativamente più buio della sua presidenza. Quel giorno è il 9 marzo: la premier scende in Calabria, al Comune, per celebrare il Consiglio dei ministri, che sfornerà il decreto Cutro. La conferenza stampa che segue, nel buio del cortile, è un disastro mediatico, una specie di dimostrazione di incompetenza tecnica sulle circostanze del naufragio, perché la premier sbaglia alcuni dettagli, si contraddice, resta vaga. E un disastro politico: nessun omaggio alle bare, come aveva fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l’unico a metterci la faccia, l’unico a portare lo Stato nell’hangar di Crotone. Nessun incontro coi familiari delle vittime: Meloni li vedrà solo poi, diffondendo un video senza audio – mancavano solo le fanfare da Istituto Luce – e facendo promesse, come abbiamo saputo solo ora, non mantenute.

 

Può bastare? Quel giorno viene approvato dal Consiglio dei ministri in trasferta il decreto n. 20/2023, cosiddetto decreto Cutro: restringe la protezione speciale fino ad azzerarla, rende più semplici le espulsioni, introduce procedure accelerate per le domande alla frontiera, che mirano a trattenere e rimpatriare il numero più alto di migranti che arrivano dai Paesi cosiddetti sicuri. Doveva essere un caposaldo della politica migratoria, diventerà rapidamente caposaldo di uno dei suoi flop.

 

Di fatto, a oggi, largamente inapplicato. È solo di pochi giorni fa, 8 febbraio, la notizia che la Cassazione, a sezioni unite, ha deciso di rimettersi alla Corte europea di Giustizia per stabilirne la legittimità, in particolare la sua compatibilità con le direttive europee sull’accoglienza. Le principali perplessità riguardano le condizioni e le modalità di trattenimento dei richiedenti, perché secondo la normativa italiana ed europea serve una motivazione per farlo, da valutare caso per caso, e non ad esempio in base alla nazionalità; per gli stessi motivi suscita perplessità la cauzione, stabilita dal decreto con un importo fisso e modalità rigide di erogazione.

 

La decisione della Cassazione arriva, per ironia, dai dieci ricorsi presentati dal ministero dell’Interno contro il Tribunale di Catania. Cioè contro le decisioni che, a partire dalla sentenza della giudice Jolanda Apostolico, a fine settembre avevano liberato i primi ospiti del Centro di Trattenimento per Richiedenti Asilo, inaugurato a Pozzallo. Insomma: il decreto Cutro prevedeva di trattenere i migranti per velocizzare le procedure di espulsione, i magistrati non l’hanno applicato ritenendolo in contrasto con la legge, il ministro ha fatto ricorso, la norma ora è pendente davanti alla Corte Ue che potrebbe metterci qualche settimana ma anche un anno a decidere della sua legittimità.

 

 

Nel frattempo, è finito spiaggiato anche il mega tentativo portato avanti in estate da Giorgia Meloni di replicare con la Tunisia il modello di accordo con la Libia. A metà luglio la premier ha portato a Tunisi dal presidente Kais Saied la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per firmare un Memorandum Ue-Tunisia, un sistema di sostegni finanziari in cambio di riforme e contrasto a flussi irregolari che alla fine è risultato irrealizzabile, per ragioni prima nazionali, poi internazionali. L’ultimo giorno in cui se ne è parlato davvero è stato quando, a metà settembre, Meloni ha portato von der Leyen a Lampedusa, per «rendersi conto della situazione e accelerare l’accordo con la Tunisia».

 

 

In quei giorni, la premier era nel mezzo di un’offensiva mediatico-politica, la penultima fino a ora sul tema dell’immigrazione. In un video diffuso di venerdì sera di metà settembre, come a esaltare il senso di urgenza sul modello del favore delle tenebre di contiana memoria, la premier parlava di «congiuntura internazionale difficilissima» che «potrebbe portare diverse decine di milioni di persone» verso l’Italia. A fronte di queste possibili decine di milioni di persone, oltre a invocare una «missione europea, anche navale», Meloni annunciava misure straordinarie, tra cui l’allungamento da 6 a 18 mesi del termine per trattenere un migrante e il potenziamento dei «Centri per i Rimpatri» che per «colpa dei governi immigrazionisti» sono «scandalosamente esigui». A realizzarli, il ministero della Difesa, in posti «scarsamente abitati e facilmente perimetrabili». Pseudo-lager insomma, uno per regione, almeno dieci da costruire, essendo nove quelli funzionanti. Che fine hanno fatto? Tutto questo è finito nel decreto 124, cosiddetto Cutro 2. Se ne è parlato moltissimo per dieci giorni, la lista dei Cpr doveva comparire in due mesi, poi c’è stata la rivolta delle Regioni. Dieci giorni fa il solito Piantedosi ha assicurato che «usciremo a breve con l’indicazione di quattro-cinque siti», subito prima di finire nell’ennesima polemica suscitata da lui stesso, stavolta per aver detto che «le cattive condizioni» in cui sono i Cpr è colpa dei migranti (li «vandalizzano»). Nel frattempo, il Senato ha dato il via definitivo alla geniale trovata albanese di Meloni, finora l’ultima della serie: l’accordo per portare là i migranti, dentro un centro di identificazione appositamente costruito e gestito dall’Italia, che potrà ospitare 3 mila persone, prevede regole da brividi tipo il colloquio in videocollegamento con l’avvocato difensore, ci costerà 673 milioni di euro in dieci anni (esclusi i soldi da versare all’Albania, 16,5 milioni solo il primo anno). Problema: il presupposto per farlo funzionare è contenuto nel decreto Cutro, incagliato in Europa dai ricorsi di Piantedosi.