Israeliano e contrario all’occupazione, Haggai Matar dirige il magazine +972. Convinto che ci si debba calare anche nei panni dei palestinesi. Smascherando le colpe dei potenti di Tel Aviv

L’esperienza che forse ha più segnato la vita di Haggai Matar sono i due anni trascorsi in prigione per essersi rifiutato di indossare la divisa dell’esercito israeliano. «L’incontro con persone che provenivano da una condizione meno privilegiata della mia – spiega – mi ha fatto capire l’importanza della giustizia sociale. Sentivo la necessità di fare conoscere le lotte che attraversavano in quegli anni la società israeliana e il giornalismo rappresentò il naturale prolungamento del mio attivismo». Matar, 40 anni, risponde dalla sua casa di Tel Aviv, mentre le schermaglie tra Israele e Iran sembrano al momento attenuate (ma in Medio Oriente non si sa mai) e nella Striscia di Gaza si teme la strage a Rafah, dove si ammassano 1,7 milioni di civili. Attivista fin dalla tenera età contro l’apartheid e l’occupazione della Cisgiordania, dal 2017 dirige +972, un magazine unico nel panorama israeliano. È il solo collettivo che dal 2010 unisce giornalisti israeliani e palestinesi, accomunati da un tratto distintivo: raccontare «tutta la storia», da un lato e dall’altro della barricata.

 

Dall’inizio della guerra, il magazine online ha messo a segno diversi scoop, raccontando ad esempio il ruolo dell’intelligenza artificiale nei bombardamenti a Gaza e la scarsa considerazione della vita dei palestinesi da parte dei vertici politici e militari israeliani, disposti a uccidere dozzine di civili pur di colpire miliziani anche di basso rango. Matar sta lavorando per portare fuori dalla Striscia l’ultimo dei corrispondenti che da Gaza hanno raccontato per +972 il conflitto. Come siamo arrivati fin qui? «Due considerazioni essenziali per comprendere la situazione attuale. Per decenni Israele ha mantenuto il controllo di tutto il territorio tra il Giordano e il mare e ha deciso le sorti di tutti gli abitanti, metà dei quali palestinesi, con l’unico focus di conservare il potere e le risorse nelle mani degli ebrei. Il secondo presupposto è che qualsiasi situazione in cui un gruppo nazionale domina su un altro, lo priva dei diritti fondamentali, controlla le sue risorse e gli impedisce ogni possibilità di raggiungere l’uguaglianza e la giustizia provocherà sempre resistenza. Questo non giustifica il massacro di civili innocenti del 7 ottobre 2023, ma quanto accaduto quel giorno è la diretta conseguenza della politica ventennale della destra israeliana e di Benjamin Netanyahu di ignorare o sottomettere completamente i palestinesi».

 

Il problema, per Matar, riguarda principalmente Netanyahu, ma anche l’impostazione dei governi guidati da Benny Gantz, Naftali Bennett, Yair Lapid e la radicalizzazione dell’opinione pubblica israeliana. Fatti strettamente intrecciati tra loro. «È desolante dirlo, ma non credo che al momento una soluzione negoziale di lungo respiro abbia un sostegno significativo in Israele – osserva – lo stesso possibile futuro premier Gantz non ha la minima intenzione di fermare il ciclo della violenza. La crescente opposizione a Netanyahu e al suo governo che vediamo tra gli israeliani è concentrata sulla mancanza di un accordo per gli ostaggi, non sul fermare fame e bombardamenti a Gaza. Mentre per la prima Intifada e per gli attacchi della seconda la società israeliana si divideva, e c’era una disputa su come lo Stato dovesse relazionarsi con i palestinesi, oggi queste discussioni sono quasi scomparse. Oggi non c’è quasi empatia per gli altri».

 

In un recente editoriale su +972, diretto proprio a quegli israeliani che «non credono di avere posto nel cuore per i palestinesi», Matar ha ricordato come la precedente operazione “Piombo fuso” contro Gaza e il rapporto Gladstone (che denunciava i crimini commessi dall’esercito) furono il pretesto per Netanyahu per scatenare una campagna contro la sinistra interna e gli attivisti per i diritti umani, rei di tradimento. E, con l’appoggio dei principali media, per «vendere la narrazione secondo cui i palestinesi erano stati battuti, che il conflitto poteva essere “gestito” solo con la forza o con mezzi economici e che Israele poteva concentrarsi sulla normalizzazione regionale, senza tenere conto degli occupati». L’illusione è crollata 15 anni dopo, a Gaza. La violenza indiscriminata sui civili che stiamo vedendo nell’enclave oggi ha, per Matar, due ragioni: «Da un lato, la sensazione di sconfitta e impotenza rispetto ai fatti del 7 ottobre da parte di un esercito che si riteneva invincibile. E la risposta è stata: “Ci toglieremo i guanti e vinceremo a ogni costo”. Dall’altro lato, la volontà di terrorizzare i palestinesi e gli altri “nemici” della regione. Nelle discussioni interne all’establishment si dice chiaramente che non si tratta solo di Gaza, ma potrebbe accadere a Beirut, se Hezbollah continuasse ad attaccare il Nord. La violenza non ha però restituito e non restituirà il senso di sicurezza che abbiamo vissuto prima del 7 ottobre».

 

Per uscire da questa spirale, secondo Matar, sono necessarie tre condizioni. La prima è la pressione dall’esterno su Israele. «Senza, Netanyahu non si fermerà e Israele non si muoverà mai verso una soluzione di lungo termine con i palestinesi. L’abilità con cui Netanyahu ha tenuto in scacco Joe Biden e la comunità internazionale mostra come sia difficile farlo». La seconda è una classe dirigente che si assuma la responsabilità dei disastri degli ultimi anni e riconosca i legittimi diritti dei palestinesi. La terza è il dialogo. Il magazine +972 nasce per questo. «La maggior parte dei media in lingua ebraica non ha giornalisti palestinesi e non tratta quasi mai questi ultimi come persone con una vita, una cultura, una famiglia». Perciò il 7 ottobre è stato un trauma che ha reso impossibile capire le ragioni degli altri, mentre «l’unica alternativa possibile coltivata dalla politica e rilanciata dai media mainstream è la guerra. Al contrario, noi pensiamo che per rappresentare la realtà di questa terra sia necessario avere nella squadra giornalisti sia ebrei sia palestinesi. Se vogliamo raccontare tutta la storia, questa è la strada. E siamo orgogliosi di averla intrapresa».