Cinema e poltica
Israele ha saccheggiato anche gli archivi della Palestina
Il regista Kamal Aljafari lavora con immagini e documenti sequestrati dall’esercito di Tel Aviv. Recuperati avventurosamente, danno vita a filmati fortissimi
Kamal Aljafari è un regista prolifico ma ultimamente non consuma troppa pellicola. Molti dei suoi film, a tutt’oggi una decina, sono infatti composti con materiali preesistenti. Immagini provenienti dalle fonti più diverse - tecnicamente “found footage” - che Aljafari, classe 1972, palestinese con passaporto israeliano, manipola, rimonta, stravolge, sovverte, in qualche caso sabota. A volte per ribaltare il messaggio di propaganda esibito o sottinteso, magari cancellando ciò che era in primo piano per esaltare lo sfondo fino a rovesciare il rapporto tra dominatori e dominati. Più spesso sottoponendo suono, ritmo, colori, la grana stessa delle immagini, a un lavoro più sottile, quasi da alchimista. Che estrae da quei fotogrammi un senso nuovo, sempre apertamente politico e a volte addirittura poetico.
Si capisce che Aljafari sia uno dei nomi chiave del secondo UnArchive Found Footage Fest (Roma, 28 maggio – 2 giugno), diretto come sempre da Marco Bertozzi e Alina Marazzi ma ideato e prodotto dall’Aamod, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, che con il suo prezioso patrimonio in perenne espansione è ormai, come il Luce (altro partner del festival), motore di tanto buon cinema di ricerca.
Tre sono i titoli di Aljafari in programma a Roma, fuori concorso: due corti fatti rielaborando scintillanti filmati di propaganda militare israeliana (“UNDR” e “Paradiso, XXXI, 108”). E un film da 80 minuti, il commovente “An unusual summer”, nato invece da una videocamera di sorveglianza installata nel 2006 dal padre del regista sopra casa loro a Ramla, storica città araba occupata e annessa da Israele nel 1948-49, per scoprire chi vandalizzava la sua auto. Mentre alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro (14-22 giugno) si vedrà il nuovissimo “A Fidai Film”, tumultuosa, perturbante, sinfonica scorribanda tra i filmati del Palestinian Research Centre di Beirut che l’esercito israeliano saccheggiò nel 1982 portando via foto, libri, schede, documenti di ogni sorta e molte ore di girato. Materiale custodito dalla Cineteca di Gerusalemme e lungamente messo a disposizione solo di storici, registi o artisti israeliani. Ma recuperato avventurosamente da Aljafari che ha fatto di questa riappropriazione creativa il centro del suo lavoro.
«La prima domanda da porsi è cosa significa non essere padroni delle proprie immagini», dice dalla Germania, dove vive da anni quando non viaggia nei festival di mezzo mondo. «Ovvero capire perché da quando dura l’occupazione i nostri archivi vengono occultati o saccheggiati. Avendo ormai perso tutto, il Paese e le sue immagini, non possiamo che usare quanto ci resta. E non solo per elaborare una contronarrazione. Attraverso questi materiali io voglio anche esprimermi nel modo più libero. Partito da temi autobiografici, ho scoperto presto quanto il personale e il politico siano strettamente connessi. Liberare queste immagini dai loro attuali proprietari significa anche ridistribuire pesi e prospettive. Dare modo di esistere a personaggi senza nome e senza storia. Creare intorno a loro uno spazio, un mondo». Anche se queste immagini ritrovate, filmate dagli occupanti o dagli stessi palestinesi, non vivono certo in un limbo fuori dalla Storia.
«Mentre finivo di montare “A Fidai Film”, nel luglio 2023, mi facevo un sacco di domande etiche», ricorda il regista. «Quanto era giusto mostrare delle violenze e dei massacri?». Scrupoli sacrosanti ma inutili. «Bisognava ricordare come tutto questo vada avanti da tempo. Nelle immagini di 90 e 100 anni fa si vedono benissimo le violenze perpetrate dagli inglesi, le case bruciate, le punizioni collettive, metodi ripresi e adottati da Israele. Naturalmente oggi è tutto ancora più scioccante perché vediamo lo sterminio di massa ripetersi su una scala mai raggiunta e sempre più difficile da fermare. Neanche l’accusa di genocidio è servita a qualcosa. Ma il peggio è che tutto viene praticato grazie a sistemi di Intelligenza Artificiale e che pochi mesi fa questi sistemi sono stati messi in vendita a Singapore, quindi saranno usati anche altrove. A Gaza è iniziato un processo di disumanizzazione di cui non valutiamo ancora la portata, per lo più ignorato dai media mainstream. Ma se oggi è così facile uccidere e mutilare tanta gente è proprio perché tutto va avanti da molti anni».
Anche per questo lavori come quelli di Aljafari dovrebbero circolare in più Paesi possibile, Israele compreso. Ma non è così semplice. Sulla possibilità di avere o meno accesso a queste immagini si consuma da anni una partita subdola fatta di mezze aperture, finti favori, competizioni non dichiarate, perché prima di tornare teoricamente visibili a tutti questi archivi sono stati esplorati, usati, sfruttati nei modi più diversi da professionisti israeliani. E non è tutto. «Chi vuole vedere i miei film ha mille modi per farlo ma non accetto inviti da festival o istituzioni israeliane», taglia corto il regista. «Non voglio legittimarli. Se c’è un genocidio in corso non puoi fare finta di niente. Il problema però è un altro. La maggior parte degli israeliani, semplicemente, non vuole vedere, non vuole sapere».
Fin qui l’Aljafari schierato che in “A Fidai Film” passa veloce anche sull’apparizione di una superstar, a suo modo, come il generale Moshe Dayan: «Per me è solo una comparsa della Storia, il vero soggetto sono il colonialismo e la violenza, i capi cambiano, muoiono, vengono sostituiti. Tra le figure davvero preziose di “A Fidai Film”, invece, ci sono quei due ragazzi palestinesi vestiti a festa che si aggirano misteriosamente in un paesaggio devastato, denunciando un desiderio di finzione, di evasione, di normalità, commovente».
E qui il militante che riscrive la Storia sovvertendo le immagini dei vincitori lascia il posto al poeta che crea un mondo tutto chiaroscuri lavorando da orefice sulle immagini a bassa definizione di “An unusual summer”. Tre mesi di video registrati da una telecamera di sorveglianza, scandagliati anni dopo dal regista. Un cortiletto polveroso, gente che passa davanti casa nel ghetto («lo chiamano proprio così») palestinese di Ramla. Ragazzi, vecchi, i vicini, due sorelle che fanno le sarte, inseparabili. Dei ragazzini con un aquilone. Un tipo «che mangia sempre ai funerali». Un altro che cammina «come fosse pedinato». Piccole notazioni geniali condensate in didascalie da cinema muto. Con improvvise vampate di suspense, perché bisogna pur sempre trovare il folle che prende a sassate l’auto del padre di Kamal. Ma la ricerca del colpevole è appena un pretesto e questo paradossale “Finestra sul cortile” mediorientale diventa una sorta di mini saga romanzesca che grazie a poche ma ottime idee (una bambina che commenta le immagini, il ricordo mitico di un albero di fichi sradicato e trafugato da un bulldozer, un enorme mazzo di fiori che si para di colpo davanti all’obiettivo), portano Aljafari in una dimensione inaspettata.
Un archivio ritrovato, tutto e solo suo. Un’oasi nel deserto della Storia. Un tesoro nascosto in soffitta che non smette di chiedersi, e di chiederci, cosa vuol dire essere palestinesi.