Fine di investimenti stile Pnrr e Next Generation Eu, si torna all'austerità e al patto di stabilità. E l'unica politica economica che si profila all'orizzonte è il neoprotezionismo dei dazi, che porterà a ritorsioni da parte di Stati Uniti e Cina

Keynes può accomodarsi nello sgabuzzino. Fra un anno e mezzo, quando si chiuderà la parentesi del Next Generation Eu, maxi-piano da 750 miliardi per rilanciare l’economia affossata dalla pandemia (e dalle crisi sistemiche che hanno attanagliato l’Europa negli anni precedenti), sarà possibile decretare la fine del tentativo comune e comunitario di creare finanza pubblica europea a sostegno della domanda, della sanità, della protezione sociale, della sicurezza. Svanisce il tentativo di promuovere, attraverso l’investimento pubblico, una politica industriale, all’insegna (e all’inseguimento) di ciò che Stati Uniti e Cina stanno già compiendo, investendo fiumi di miliardi sull’innovazione tecnologica, dai microchip all’auto elettrica, passando per intelligenza artificiale e farmaceutica. Le elezioni del Parlamento europeo dicono chiaro che la stagione del «più Europa» è finita: si torna all’austerità, al Patto di Stabilità, a un limitato ruolo della politica economica dell’Europa, scommettendo non tanto sulla capacità del libero mercato di convergere verso il migliore dei mondi possibili (principio caro ai liberali), bensì facendo il tifo per le corporazioni, affinché le relative posizioni di rendita possano alleviare il drammatico affondamento del Titanic europeo. Come? Garantendo, ad esempio, un posto di lavoro in una fabbrica di auto che fa per lo più motori a scoppio, o in un’altra che produce energia da carbone. Se non sarà la natura a presentarci il conto, lo faranno le altre superpotenze, che hanno imboccato speditamente la via della transizione energetica e digitale.

 

In sintesi, è questo l’effetto che fa la svolta a destra. Se il Parlamento europeo potrà continuare a viaggiare con una maggioranza Ursula, trainata quindi da popolari e socialisti, è indubbio che qualcosa bisognerà concedere alle forze emergenti dell’ultradestra ed è altrettanto scontato che a cambiare saranno soprattutto gli equilibri all'interno del Consiglio europeo. È qui che i capi di governo prendono le decisioni più importanti in tema di fisco, bilancio, sicurezza, protezione sociale e politica estera. Se al vento reazionario, conservatore, ombelicale degli ultranazionalisti non è più possibile non dare retta – perché pende sulle teste di Emmanuel Macron e Olaf Scholz, mentre è stato sposato volentieri da Italia, Olanda, Ungheria e pare a breve anche da Austria e Belgio – allora è chiaro che viene meno anche la disponibilità di ciascun governo a concedere agli altri Stati membri ulteriore debito pubblico sovranazionale, come è stato per il Next Generation Eu e quindi per il Pnrr italiano. Difficilmente il tedesco Scholz farà sconti allo sforamento di bilancio della Francia, perché in casa propria ha da render conto ai post nazisti dell’Alternative für Deutschland; ed è lapalissiano che l’ultranazionalista belga Geert Wilders dirà «no» alle richieste di ammorbidire i vincoli che verranno da Giorgia Meloni e dalla sovra-indebitata Italia. Non dimentichiamoci che Wilders aveva accolto il Next Generation Eu con il cartello: «Non un centesimo all’Italia».

 

Un bel problema per l’Italia che, assieme alla Francia, è destinata a entrare in procedura per deficit eccessivo, essendo i conti pubblici fuori norma: questo implica che a settembre il Paese dovrà presentare un piano di risanamento serio, cioè dovrà trovare non meno di 10 miliardi l’anno per abbattere il debito. E questo vuol dire alzare le tasse o tagliare la spesa: altre variabili non sono contemplate dal nuovo Patto di Stabilità. «È sicuro che l’interesse nazionale in tutti i Paesi europei avrà la meglio sull'interesse collettivo, rendendo impraticabile una riedizione del NextGenEu, o ambiziosi piani di ampliamento della capacità di bilancio centrale», commenta l’economista di Sciences Po, Francesco Saraceno, che, volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, aggiunge: «Un politico europeista potrebbe però far leva proprio su questo interesse nazionale per avviare una riforma della riforma del Patto di Stabilità. Perché è chiaro che al prossimo shock economico-finanziario, che arriverà perché viviamo in un momento di forte instabilità, la rigidità e il ritorno all’austerità imposto dall’attuale Patto riporterà l’intera Europa a fare i conti con la crescita anemica e l’aumento di povertà e disuguaglianze. A quel punto si può sperare che sia proprio l’interesse nazionale a mettere in gioco una riforma della riforma». Fine delle buone notizie. Perché tornando alla stretta attualità, se in autunno l’Italia non si atterrà alla legge di bilancio restrittiva, la Banca centrale europea non darà più l’attuale copertura al debito italiano. E questo potrebbe interrompere la lunga luna di miele con i mercati finanziari.

 

Quel che è certo è che queste elezioni non renderanno la lotta alla crisi climatica meno essenziale per le sorti del pianeta e dell’umanità. «Giuridicamente non è possibile tornare indietro su trattati già siglati, come nel caso del Green Deal, e non è possibile neppure ridiscuterne i contenuti. È però possibile dilatare i tempi di attuazione, ad esempio ritardando la messa al bando del motore a scoppio», spiega Alfredo Luis Somoza, docente di Scienze politiche all’Università Cattolica di Milano, che prosegue: «A differenza delle passate tornate elettorali europee, stavolta non è entrata in Parlamento una forza contraria al progetto Europa in sé, bensì una forza ondivaga, con piani non ben definiti, che intende rallentare la transizione ecologica fin qui apparecchiata attraverso deroghe e proroghe. Non mi attendo una rivoluzione a Bruxelles, bensì una Commissione rallentata e parlamentari pronti a difendere più l’interesse di singoli Paesi che quello collettivo».

 

Sul fronte della politica economica europea, le spinte degli ultranazionalisti potrebbero portare a una fiammata di neoprotezionismo, elemento tipico di quella parte politica: «Ma la dipendenza europea dall’importazione di materie prime e dalle esportazioni è tale da compromettere seriamente la crescita economica dell’intera eurozona», commenta Somoza. Tutte da decifrare, invece, le scelte più concrete rispetto al modello economico da abbracciare: «Sicuramente non si lascerà spazio al libero mercato», ragiona Saraceno che continua: «All’orizzonte si staglia una terza via di sostegno corporativo agli oligopoli oggi di stanza in Europa». Tutto questo avviene in un continente in cui il processo di integrazione si è fermato e le disuguaglianze hanno rincominciato a correre. Scrive lo statistico Salvatore Morelli nel libro “Quale Europa” del Forum Disuguaglianze Diversità, edito da Donzelli: «Dalla metà degli anni Novanta la quota di ricchezza netta detenuta dall’uno per cento degli individui più ricchi è aumentata considerevolmente in quasi tutti i Paesi. Allo stesso modo, la quota di ricchezza del 50 per cento più povero si è ridotta in modo vistoso». E l’economista Elena Granaglia ricorda che «saranno questo Parlamento e la relativa Commissione a dover contrastare le tante disuguaglianze inique (personali, territoriali, di riconoscimento e di voce) e la povertà ereditate dal passato. Avere una base di condizioni di vita dignitose è importante in sé ed è indispensabile ai fini della sostenibilità politica dell’Ue e della vita democratica». Una frase che suona quasi come un in bocca al lupo per chi dovrà guidare la nave Europa.