Trentacinque anni, duecento milioni di dischi venduti, un’icona cresciuta nel country capace di domare lo show business e di mettere in versi le sue storie. Una stella planetaria della musica. E non solo. Ecco perché

Nell’economia, nella geopolitica, nella sociologia: da due anni i discorsi su Taylor Swift non si esauriscono più nel campo della musica, ma esondano in ben altri campi. E non basterebbero trattati per ricostruite le sfumature di questa popstar statunitense di 35 anni, un animale strano che potrebbe essere uno dei tanti che l’industria fabbrica in serie, e invece è già tra i più grandi di sempre. D’altronde, duecento milioni di dischi nel mondo in meno di vent’anni non si vendono per caso, tra undici album in studio e una musica sempre meno frivola, certo, ma comunque d’amore, mai modaiola, né mai all’avanguardia, o tantomeno facile. Forse va guardata in controluce, e non è solo questione di numeri.

 

Per ogni persona che non si spiega cos’abbia di speciale, e si chiede perché sia tra le più influenti al mondo, con presenze qui o lì, endorsement per lui o per lei, che spostano equilibri, altre – diranno giovanissimi e soprattutto giovanissime, ma occhio da qui in poi a generalizzare, le vie del pop sono infinite – spendono cifre a tre zeri per un biglietto, dai bagarini, con le prevendite polverizzate.Perfino in un Paese autarchico come il nostro, costola dell’impero, con le classifiche dominate da maschi italiani, rapper, e le radio che trasmettono a malapena i suoi pezzi mai troppo qualcosa, agendo di conseguenza, il culto prospera.

 

Perché di culto, per quanto atipico, si tratta: esclusivo, da una parte, non comprensibile a tutti; enorme, però, dall’altra. Prendiamo questo The Eras Tour, un colosso da tre ore di durata a sera che raccoglie il tutto esaurito dovunque, è tra le produzioni più ambiziose di sempre in termini di concerti e il 13 e 14 luglio atterra a Milano, a San Siro, davanti a oltre centomila persone. Ci sono fan in fila da giorni, ma storie simili si erano viste già l’anno scorso all’uscita al cinema del film sul tour: sale di città, periferia e provincia assaltate, gente – compresi i bambini, anche se qui è tutto leggero, sì, ma non infantile – che piange davanti allo schermo, s’avvicina per toccare con mano il sogno. Sono scene, ancora, da british invasion, di urla e capelli strappati per i Beatles. Se gli anni Cinquanta erano di Elvis Presley e i sessanta dei Fab Four – due leggende con cui si gioca vari record, infatti – questi sono i suoi. E la forza sta tanto nell’amore quanto nel fatto che in tanti non si capacitino del suo successo. Capita con rivoluzioni e fenomeni di rottura, e stavolta ha pure radici antiche.

 

Spettatori al SoFi Stadium di Inglewood il 7 agosto 2023

 

Tra le popstar di cui si ha memoria, Swift è la più cantautrice, legata alla tradizione di chitarra, armonica, sgabello. E infatti è così che comincia questi ultimi, mastodontici concerti, al primo di tanti cortocircuiti d’immaginario. E poi: non usa il corpo come una bambola di plastica, ma neanche come strumento di rivolta. È trasparente, più che a una popstar classica, dove la portano i suoni, adempie a ciò che ci si aspetta da un cantautore: raccontare delle storie, e il resto viene dopo. Il retaggio è degli esordi nel country, ad appena 17 anni, con pezzi registrati nel doposcuola in un distillato di sogno americano: con la madre va a Nashville, la patria del genere, in cerca di fortuna, ma prende porte in faccia finché l’allora manager di Britney Spears non le dà una chance. Il resto è Storia, non fosse che Swift, che già allora cantava le sue storielle adolescenziali superando a destra i cliché del country, era diversa da Spears e da quel modello in generale.

Controcopertina
Quanto vale davvero Taylor Swift
12-07-2024

Si sarebbe capito con il tempo, il 2006, in questo senso, era ancora il Medioevo. I protagonisti della musica leggera costruivano da tempo il proprio mito sull’inavvicinabilità: senza scomodare David Bowie, basti pensare a Michael Jackson e al moonwalk, ultraterreno per definizione; ma anche Raffaella Carrà, in Italia, per forme e look si presentava come un alieno. Il risultato, derivativo, è una sequela di popstar perfette ma distanti, di bell’aspetto e ottima voce, ma con poca malizia che non fosse quella dettata dal gossip o dall’iper-sessualizzazione imposta alle donne – due fattori, s’intende, fuori dal controllo degli artisti. Si spiega così il successo prima, e il calo ora, delle varie Jennifer Lopez, Katy Perry o della stessa Dua Lipa, che macina numeri impressionanti in termini di ascolti ma non va mai davvero a segno come personaggio. Non c’è chi spenderebbe migliaia di euro per vederla dal vivo, non c’è chi piange sotto il palco.

 

Lì, ecco, entrano in ballo altri fattori. Oggi serve altro, servono una storia, dei valori, un messaggio, uno sviluppo del personaggio, una trama. Serve che gli artisti “facciano sangue”, serve rivedersi in loro, annullare le distanze. Saranno i social, la voglia di averli vicini. Ma questa categoria prospera, da Beyoncé ascesa ad amazzone culturale a Billie Eilish che combatte i suoi demoni, senza contare la stessa generazione zeta, più interessata, per dire, alla disputa sulla salute mentale di Spears e i suoi tutori legali che alla sua musica al gusto di plastica.

 

E Swift è plastic free, l’ha capito per prima e meglio, un po’ per istinto e un po’ per una strategia precisa ha azzerato ogni barriera, almeno in percezione, con milioni di fan. Lontana e vicina, è stata la protagonista di questo cambiamento di scenario. E la chiave dell’illusione ottica è ancora nel country. Che è un genere difficile da comprendere se non si è statunitensi, con un radicamento con il territorio in termini di immaginario e che nel resto del mondo è lost in translation. Che è anche conservatore, seppure restio a Trump, tanto che Swift è stata considerata un’icona della destra, prima di rompere il silenzio e sposare la causa democratica di Biden come paladina delle battaglie per i diritti Lgbt e di quelle ecologiste. Soprattutto, il country è musica da focolare, con scene e personaggi ricorrenti e una scrittura cinematografica, visiva.

 

un fan al Wembley Stadium, il 21 giugno 2024

 

Swift non fa country in senso stretto dalla svolta di 1989, uscito nel 2014 e trainato dalla hit Shake it off, un giocattolo divertente e anticamera dell’ultima maturazione emotiva, sempre nei cardini del pop più classico, ma la lezione resta: dice che i suoi testi sono «come un diario segreto», ed è vero; dai pezzi viene fuori un personaggio vivido, che nonostante il successo planetario vive le paturnie di una giovane donna qualsiasi, dai dubbi del diventare adulti alle crisi sentimentali, nella parte di quella sempre innamorata, illusa, convinta di cambiare il proprio uomo, e poi sempre delusa, tradita, abbandonata. L’ultimo album, The Tortured Poets Department, uscito in primavera, ne è manifesto. E viene da sé che il risultato è una piena identificazione in lei da parte di milioni di giovanissime, le swifties (ma occhio, ancora, a generalizzare), verso una sorella maggiore che ci è già passata che dà l’impressione di avere con chi la segue un rapporto stretto, complice. Anche il fatto che le radio, in alcuni Paesi, non la passino, alimenta il culto. «Io vi capisco, sono come voi», sembra dire nei pezzi, che più per le melodie micidiali incantano per ciò che trasmettono. È tangibile, credibile, reale. Si riempiono così gli stadi nel 2024? Sì, ma non solo.

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A questo doppio paradosso – una rivoluzione che parte dal passato, e l’aver sbancato il mondo partendo da un genere che fuori dagli Stati Uniti non si conosce – se ne aggiunge un terzo: le canzoni, così decisive, sono solo una parte di un tutto che non è più un contorno. Siamo nell’epoca delle meta-narrazioni, i brani in sé non bastano, occorre un impianto narrativo ampio basato sul racconto che gli artisti fanno di sé tramite social, collaborazioni, videoclip, qualsiasi cosa. Riecco la trama di fondo. Lei, visionaria, la sua l’ha costruita dagli amori: prima i giornali scandalistici ci si accanivano, mentre passava da un compagno a un altro, uno all’anno, da Jake Gyllenhaal a Harry Styles; adesso è andata all’incasso, dopo aver messo tutto ciò sotto il suo controllo, a sistema con il resto. Quando canta di un ex, di cui non fa mai il nome, le teorie si sprecano, neanche fosse un romanzo rosa in cui vita vissuta e canzoni si confondono. Perché, come nei fantasy, vince chi sa costruire mondi. E lei è la migliore auto-narratrice che c’è, ha creato una dimensione a sé, e nessuno riesce più a metterci bocca. L’ultimo gossip? È su una presunta bisessualità, ma cercando s’incontra un muro di gomma: da quando ha preso in mano la sua carriera, i rapporti di forza si sono invertiti.

Editoriale
Perché Taylor Swift è molto più di una semplice popstar
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Prima, certo, di sfighe ce n’erano state, e poteva forse sembrare, davvero, una delle tante. Su tutte: nel 2009, agli Mtv Video Music awards, Kanye West la screditò mentre le consegnava un premio, dicendo che lo avrebbe meritato Beyoncé. Oggi le due sono sostenitrici l’una dell’altra e la faida che il rapper continua a rivolgerle è scaduta, come la sua credibilità. All’epoca fu un duro colpo, oggi è alla base di una narrazione di rivincita e potere. E anche la critica, dopo averla ignorata, l’ha presa sul serio con gli album Evermore (2020) e Midnights (2022), influenzati dalla musica alternativa. Qualche mese fa, il New York Times cercava un giornalista che si occupasse solo di lei: anche questa è legittimazione. In mezzo, il ritorno del lupo cattivo, ma con un finale diverso. Quando nel 2019 la Big Machine, l’etichetta che aveva pubblicato i suoi primi dischi, ne ha venduto i diritti a Scooter Braun, manager tra l’altro di West nel 2009, e lui ha concesso l’uso di quelle canzoni senza interpellare Swift, lei ne ha registrato delle nuove versioni – a livello legale poteva farlo, ma era un azzardo – per far crollare il valore delle originali. Risultato: le seconde incisioni sono di gran lunga migliori, da lì ha acquistato anche i master di allora e in generale ne è uscita ribelle, indipendente, vincente. E oggi tutto questo è alla base di una narrazione nuova, in cui questa sorella maggiore è un’icona di empowerment femminile a cui resta solo l’onere di alzare l’asticella: che s’inventerà quando un tour enorme come questo finirà? È un privilegio di pochi.

La testimonianza di una swiftie
«Io, swiftie, vi spiego perché Taylor per non è così importante»
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E pazienza che nella vita di tutti i giorni sia meno avvicinabile di quanto raccontino i testi, dei dati su quanto inquini il suo jet privato, altro che ecologia, e di come l’acquisto di magliette brandizzate, vinili e il resto si alimenti di sofisticate operazioni di marketing più che di sorellanza. Cambiare il mondo è la seconda prerogativa delle popstar: la prima, dai tempi di Elvis e Lennon, è vendere sogni.