L’anima multietnica, la passione e la ribellione alla paura. La città si sveglia e si riappropria delle periferie. E di questi fermenti Marco D’Amore e Francesco Di Leva sono gli interpreti

Marco D'Amore e Francesco Di Leva non potrebbero essere più lontani e insieme più vicini. Il Ciro di “Gomorra”, cinque stagioni da protagonista, le ultime due anche da regista, è una star che non può uscire in strada senza esser preso d'assalto. Di Leva invece, memorabile “Sindaco del Rione Sanità” per Mario Martone, non è solo uno dei talenti più incandescenti della scena partenopea. È anche un instancabile organizzatore culturale che con il suo teatro a San Giovanni a Teduccio, il Nest, sta cambiando in profondità uno dei quartieri più difficili di Napoli. Ospiti entrambi dell'Ischia Film Festival, una delle non molte rassegne ormai che pensa al cinema prima che al turismo (29 giugno - 6 luglio), D'Amore e Di Leva nel 2010 hanno anche recitato insieme in un film da rivedere: “Una vita tranquilla” di Claudio Cupellini. Erano i due giovani delinquenti che apparivano all'improvviso nella casa tedesca di Toni Servillo, ex-camorrista riparato da anni in Germania sotto falso nome. Sullo schermo non si sono più incrociati ma nella vita condividono amicizia, curiosità, inquietudini. E un entusiasmo a dir poco contagioso per una città che si fa ogni anno più contraddittoria e sorprendente.

 

“Io credo che l'unicità di Napoli abbia ragioni antropologiche”, esordisce Marco D'Amore. “Come diceva già Pasolini, da un lato questa città cerca in tutti i modi di resistere al tempo e alla Storia perpetuando tradizioni che qui resistono più che altrove. Dall'altro si aggiorna di continuo pescando forme e generi magari a distanze siderali. Anche se poi appena arrivano a Napoli questi linguaggi, penso al rap, diventano “originali”, come fossero nati qui, e da qui ripartono alla conquista del mondo. Tanto che oggi anche a Milano si rappa in napoletano. E il successo internazionale di “Gomorra” ha spinto una generazione di “rappeurs” delle banlieue francesi di origine magrebina a impossessarsi delle nostre battaglie in testi intitolati “Cirò”, “L'immortel” o “Gomorrah”, con l'h finale”.

 

L'anima multietnica della città del resto è nota almeno dai tempi di “Tammurriata nera”, 1944, e di grandi musicisti afrodiscendenti come Mario Musella e James Senese. Ma l'immigrazione ha dato un'accelerazione decisa al fenomeno. Come ben sa proprio D'Amore, che nel suo ultimo film da regista, il coraggioso “Caracas”, parte da un romanzo di Ermanno Rea, “Napoli Ferrovia”, per indagare sui quartieri musulmani del capoluogo.

 

D’Amore con Tony Servillo

 

“Prima di girare ho passato quattro mesi nella comunità islamo-napoletana con l'aiuto dell'imam Massimo Abdallah Cozzolino, che ricordava ancora i rapporti tra lo scrittore e il “vero” Caracas, il personaggio che ispirò Ermanno Rea. Figli di egiziani, marocchini, senegalesi, questi ragazzi pregano Maometto ma parlano napoletano. E la musica resta il veicolo più potente d'integrazione, visto che la convivenza spesso forzata tra vecchi e nuovi napoletani poggia quasi interamente sulle loro spalle, lo Stato non fa certo molto per favorirli, Per fortuna, come ho verificato di persona, i poveri sono i primi a capire che conviene allearsi anziché farsi la guerra. Fondamentale poi il ruolo delle associazioni che operano in questi quartieri. Anche per ”Gomorra”, Sky e Cattleya (la produzione della serie) hanno sempre lavorato a braccetto con queste realtà. E i quartieri ne sono usciti profondamente trasformati. A Scampia oggi c'è uno dei poli universitari di Medicina più importanti d'Italia, la terza Vela è stata abbattuta e l'intero quartiere si è riqualificato. Merito delle associazioni di quartiere, cui a nostra volta il nostro lavoro ha dato forza”.

 

Su questo Francesco Di Leva, che da San Giovanni a Teduccio non se n'è mai andato (“E come potrei?”), ha opinioni perfino più radicali. Reduce da Parigi, dove ha rappresentato all'Istituto Italiano di Cultura il suo “Muhammad Alì”, tre film in uscita tra cui “Nottefonda” di Michele Miale Di Mauro, prodotto dalla Mad di Luciano Stella e segnato dalla partecipazione di tutto il nucleo storico del Nest (“seguiamo le orme dei Teatri Uniti di Martone, Servillo e Giuliano, senza fare paragoni eh...”), Di Leva emana energia e entusiasmo.

 

“Fino a qualche tempo fa non facevo che parlare di camorra e delitti, facendo nomi e cognomi sui giornali per contrastarli. Oggi sono testimone di un cambiamento che va divulgato perché nessuno ne sa ancora niente”. Sarebbe a dire? “ A Napoli c'è sempre stato un muro invisibile tra il centro e le periferie, il boom turistico di questi anni poi ha peggiorato le cose. Però quel muro lo stiamo abbattendo. Con Manfredi al Comune la spinta al decentramento è ripartita con forza. Nel mio quartiere è arrivata l'università Federico II, 4.000 studenti su 27.000 abitanti fanno una differenza enorme, e la Federico II ha avviato diverse partnership per cavalcare la transizione al digitale. C'è la Apple Developer Academy. C'è la Digita”, nata in collaborazione con una grande azienda storica come la Deloitte, “che occupa l'ex-area industriale della Cirio. Cè una start up come la Kineton”, da zero a 30 milioni di fatturato in 6 anni, “che ci sostiene organizzando corsi formativi per maestranze al Nest”, il polo teatrale che dal 2007, quando debuttò proprio con l'adattamento di “Gomorra” di Saviano, ha impiantato a San Giovanni a Teduccio non solo un palcoscenico molto ben frequentato, ma una scuola di teatro.

 

Francesco Di Leva, Sindaco del Rione Sanità di Mario Martone e anima di Nest

 

“Una scuola che ultimamente, grazie ad alcuni sponsor privati, eroga anche borse di studio per gli under 16, gli unici per cui i corsi non sono gratuiti. Così ora tanti giovanissimi si affacciano nei nostri locali, ed è commovente scoprire quante persone nel quartiere volevano cambiare, scoprire la cultura e un modo diverso di vivere insieme. Il cambiamento del resto è globale. Se prima la gente chinava la testa di fronte alla criminalità, oggi molti reagiscono, denunciano”.

 

Scacciamo un pensiero terribile. A sentire il Procuratore della Repubblica di Napoli, Nicola Gratteri, gli informatici più abili (e inafferrabili) sono proprio i camorristi, Il digitale insomma non è un bene in sé e anche la crescente aziendalizzazione degli studi superiori non è priva di incognite. Ma Di Leva oppone un altro genere di ragioni: “Gratteri ne sa infinitamente più di me. Io parlo solo di quel che vedo e che sento, sulla mia pelle. La bolla di sopraffazione e paura è scoppiata. Indietro non si torna”. Stando alle ultime elezioni europee, Napoli è anche una delle città più a sinistra d'Italia. “Il dato partitico mi interessa poco”, taglia corto Di Leva. “Io sto sul pezzo, per me conta la concretezza. Ho le mie idee ma chiunque venga al Nest gli tendo la mano, mi interessa ciò che può fare per il quartiere, non vado certo a simpatie”.

 

Diverso il ragionamento di Marco D'Amore. “Se Napoli vota a sinistra, malgrado l'astensionismo imbarazzante, è perché è una città molto giovane, che sogna e vuole fermamente un futuro diverso. Lo dicono le battaglie per i diritti che nascono proprio qui, e i tantissimi studenti che ho la fortuna di incontrare spesso. Se università antiche come la Federico II e la Suor Orsola Benincasa puntano sui new media è anche perché Napoli ormai è la capitale audiovisiva d'Italia. Dopo “Gomorra” la città è esplosa, vengono a girare qui da tutto il mondo. Però servono scuole, training, centri di post produzione, che in Campania non esistono. Bisogna formare le maestranze, certo. Ma anche alimentare un indotto che può essere un potente motore di sviluppo per la città. Questo significa sviluppare nuove professionalità e chiedersi quanto può crescere Napoli intorno a questo fenomeno, che non deve restare un'avventura di passaggio”. Parola di attore, ma anche di regista e di produttore che ha in cantiere il terzo film di Francesco Ghiaccio dopo “Un posto sicuro”, sul dramma dell'Eternit, e “Dolcissime”, storia di bullismo e body shaming.

 

Di Leva in Nottefonda

 

“Io anche in famiglia sono stato educato all'arte del racconto”, riprende D'Amore. “Per affrontare i problemi era sempre necessario parlare di sé, e credo che tutto ciò che racconta un fenomeno non può che fare bene, anche alla società”, dice alludendo alla lunga scia polemica che le varie stagioni di “Gomorra” si sono lasciate dietro. “Personalmente credo che i problemi non nascano mai da una serie, un genere o una canzone, ma dal contesto. Attraverso il racconto altrui a volte capisci parti di te che non avevi messo bene a fuoco, perché chi racconta spesso lo sa fare molto bene. Mentre, tornando al contesto, un'umanità abbandonata a se stessa e priva di accesso alla bellezza, cade facilmente preda di risentimento e violenza”.

 

È il tema del suo nuovo film da attore, titolo provvisorio “Vesuvio”, regista la francese Cécile Allegra. “Una documentarista di guerra che ha raccontato a lunga la tratta degli esseri umani in Africa, io non la chiamo immigrazione, poi ha scoperto la storia del Tappeto di Iqbal, una onlus che dal 1999 lavora al recupero di ragazzi di strada attraverso il circo, il teatro e l'arte in generale, e se ne è innamorata”. Il nome, Iqbal, è un omaggio a un piccolo pakistano ucciso dalla mafia dei tappeti nel 1995. D'Amore è il protagonista, Mentre per la sua nuova regia ci sarà da aspettare. “Ma purtroppo per qualcuno - ironizza - tornerò. L'azzardo di “Caracas” è piaciuto molto ai produttori. Ho fin troppe proposte sul tavolo. Dovrò fare delle scelte”. E stavolta non è detto che resti a Napoli.