E poi Budapest facilita i visti ai russi, allarme spie in Ue. Kamala Harris contro Trump: "Vieni a dirmi le cose in faccia". Entro quattro giorni giudizio immediato per Toti. Le opposizioni denunciano: "Da Meloni l'editto cinese contro la libera stampa". I fatti da conoscere

Ucciso a Teheran il capo di Hamas

Hamas ha comunicato la morte del suo leader Ismail Haniyeh in seguito a un raid israeliano contro la sua residenza a Teheran. Haniyeh aveva 62 anni e dal 2017 era il capo politico di Hamas. Era nato in un campo profughi di Gaza, da genitori fuggiti dalla città di Asqalan dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948. Dal 2019 viveva a Doha, in Qatar (che gli aveva dato l'asilo politico), e in questi giorni si trovava a Teheran per partecipare alla cerimonia di insediamento del presidente iraniano Masoud Pezeshkian. Da giovane aveva studiato all'istituto al-Azhar e si era laureato in letteratura araba all'Università islamica di Gaza. Nel 1983 aderì al Blocco Studentesco Islamico, considerato un precursore di Hamas. Ha scalato i ranghi del movimento diventando stretto collaboratore del co-fondatore, il defunto sceicco Ahmed Yassin. Haniyeh è stato in carcere in Israele a seguito delle manifestazioni di protesta nel 1987 e nel 1988: Nel 1992 è stato nuovamente arrestato e deportato assieme ad altri nel sud del Libano, tornando poi a Gaza: Inoltre è sfuggito a vari attentati. Nel 1993 è tornato a Gaza diventando preside nell'Università Islamica. La sua carriera politica lo ha visto occupare il ruolo di Primo ministro dell'Autorità nazionale palestinese dal 2006 al 2007. A causa delle forti tensioni interne - tra Abu Mazen e Hamas - fu quindi incaricato di costituire un governo di unità nazionale che però ebbe vita breve e si concluse con la presa della striscia di Gaza da parte di Hamas. Era sposato e aveva avuto 13 figli, tre dei quali sono stati uccisi durante un raid israeliano all'inizio dell'anno. «Un atto codardo e uno sviluppo pericoloso», ha commentato il presidente palestinese Abu Mazen, citato dalla Wafa. Mazen ha quindi invitato «il popolo palestinese e le forze popolari all'unità, alla pazienza e alla fermezza di fronte all'occupazione israeliana».

 

 

 

Kamala Harris: "Trump, vieni a dirmi in faccia le cose" 

Nel suo comizio ad Atlanta Kamala Harris ha usato più volte un tono di sfida aperta con Donald Trump, deridendolo per la sua marcia indietro sul duello tv di settembre dopo essersi impegnato a farlo con Joe Biden (« non vi sembra bizzarro?») e auspicando che "riconsideri di incontrarmi sul palco del dibattito». « Donald, se hai qualcosa da dire, dimmelo in faccia». Nel suo intervento ad Atlanta, Harris ha ripercorso i temi dei suoi ultimi comizi: attacchi a Trump, alle sue politiche e all'agenda estrema di Project 2025, impegno per la middle class e la riduzione dei prezzi per le famiglie, lotta contro Big Pharma e per le libertà, a partire da quella di abortire. La vice presidente Usa è inoltre l'unica candidata nella corsa per la Casa Bianca che correrà per la nomination presidenziale democratica. Lo ha annunciato il Comitato nazionale democratico (Dnc), spiegando che Harris dovrà ora affrontare il voto dei delegati della convention nazionale del partito, che ratificheranno ufficialmente il candidato con una nuova procedura di voto online adottata dal partito la scorsa settimana. Le votazioni inizieranno giovedì e si concluderanno il 5 agosto. Sebbene nessun altro democratico di rilievo avesse manifestato l'intenzione di sfidare Harris, l'annuncio del Dnc ha ufficialmente spianato la strada a Harris per cercare la nomination Demn senza contestazioni, solo 9 giorni dopo che il passo indietro del presidente Usa Joe Biden dalla corsa di novembre. I voti per chiunque non sia Harris saranno conteggiati come "presenti". Nonostante il voto anticipato virtuale per la scelta del candidato Dem, i delegati si riuniranno comunque come previsto a fine agosto alla Convention nazionale democratica di Chicago. Il partito organizzerà un voto cerimoniale per appello nominale Stato per Stato, seguito da discorsi di accettazione da parte di Harris e del suo compagno di corsa come vice, che verrà presto nominato. Il comunicato del Dnc riferisce che che i delegati automatici, noti anche come superdelegati, saranno autorizzati a votare al primo scrutinio

 

 

 

Budapest facilita i visti ai russi, allarme spie in Ue

Porte aperte ai russi e bielorussi, in virtù di un gentlemen agreement che va ancora una volta in direzione ostinata e contraria a quella dell'Ue. Viktor Orban, qualche giorno fa, nel silenzio dei media locali, ha impresso una svolta significativa nella sua politica migratoria, decidendo di semplificare le procedure di ingresso per i cittadini di Russia e Bielorussia. La motivazione principale starebbe nella ricerca di manodopera per la costruzione della seconda centrale nucleare del Paese. Ma l'iniziativa non poteva che allarmare Bruxelles: aprire le porte a chi proviene da Mosca e Minsk, potenzialmente, accresce potenzialmente il rischio che i Paesi europei si espongano allo spionaggio del Cremlino. L'Ungheria è parte di Schengen. In teoria, quindi, chi proviene da Budapest non è soggetto ai controlli di frontiera in altri Paesi dell'area. Il rischio di un cortocircuito è dietro l'angolo e va ad inserirsi in un clima di crescente tensione tra Bruxelles e Budapest, esacerbatosi con l'inizio della presidenza di turno ungherese. Non solo. Secondo la Deutsche Welle, tra i primi media europei a svelare la mossa di Budapest, l'apertura all'ingresso dei russi ha fatto seguito alla missione, contestatissima, di Orban al Cremlino nei primi giorni di luglio. Nello stesso mese il governo magiaro ha infatti optato per includere nel programma della 'Carta nazionale' otto Paesi, e non più solo Ucraina e Serbia. E tra le new entries figurano Russia e Bielorussia. La Carta Nazionale permette di lavorare in Ungheria, di trasferirvi la famiglia e dopo due anni di ricevere un permesso di soggiorno permanente. L'allarme è stato lanciato inizialmente dal leader del Ppe Manfred Weber, che in una lettera al presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha chiesto di mettere in agenda la questione al summit dei 27 di ottobre. La decisione del governo ungherese « apre le porte alle spie russe e solleva serie preoccupazioni per la sicurezza nazionale», ha sottolineato Weber. E la Commissione ha assicurato che "prenderà contatti" con le autorità ungheresi per chiarire la faccenda. Con un punto fermo: le misure devono rientrare nelle regole dell'Ue e tener conto da un lato che Mosca « rappresenta una minaccia per la sicurezza» e dall'altro che «è necessario tutelare la sicurezza dell'area Schengen». La reazione di Budapest non si è fatta attendere. «Come replica alle bugie di Manfred Weber: la sua azione non è altro che un altro attacco ipocrita all'Ungheria da parte dell'élite liberale europea favorevole alla guerra», ha sottolineato il portavoce del governo Zoltan Kovacs, definendo «assurde» le preoccupazioni di Bruxelles. I controlli sulla migrazione ungherese sono i più severi, è l'Ue ad aver permesso l'ingresso di «centinaia di migliaia di clandestini», è la tesi di Budapest. Eppure con i visti semplificati ai russi Orban ha aperto un nuovo fronte estivo, che si aggiunge allo scontro con l'Ue sullo stop al petrolio russo che passa per l'oleodotto Druzhba decretato da Kiev e sul quale l'Ungheria, lamentando l'inazione della Commissione, minaccia rappresaglie. I rapporti tra Budapest e Bruxelles sono oramai ai minimi su ogni dossier. Orban è arrivato a porre il veto anche sulla dichiarazione che doveva essere a 27 sulla necessità di verifiche imparziali sulle elezioni in Venezuela. E, allo stesso tempo, si appresterebbe a riproporre a Ursula von der Leyen l'uscente Oliver Varhelyi come commissario magiaro, consapevole dell'alta probabilità che l'attuale titolare dell'Allargamento sia bocciato nelle audizioni di settembre all'Eurocamera.

 

 

 

 

Meloni tratta con Ursula e attacca i media 'strumentali'

Pronta a entrare nel vivo di una trattativa che è già «in divenire», senza timori che i rapporti con Bruxelles stiano «peggiorando». Perché non ci sono scontri «con la Commissione" ma una «condivisione" di una attività di «strumentalizzazione» da ultimo del report europeo sullo stato di diritto. Giorgia Meloni, prima di partire per la tappa di Shanghai che chiude la sua missione in Cina, incontra la stampa italiana a Pechino. Ha chiuso con il colloquio «franco e trasparente» con il presidente Xi Jinping una tre giorni di incontri istituzionali «di alto livello» con l'obiettivo di rilanciare i rapporti con il Dragone attraverso uno strumento che è, assicura, "alternativo" alla Via della Seta. Non può evitare di affrontare le polemiche interne, sia sul suo viaggio (Giuseppe Conte la accusa di avere fatto una "giravolta"), sia quelle sollevate dal rapporto diffuso a metà della scorsa settimana dalla Commissione. Che il governo aveva già commentato, cercando di arginarne gli effetti, sia in modo anonimo, attraverso «fonti", sia con la lettera che lei stessa ha firmato e inviato a Ursula von der Leyen. Ma che non era un atto di accusa contro la Commissione, anzi. L'interlocutore, dice la premier, è «chi strumentalizza quel rapporto», certi "stakeholder" come «il Domani, il Fatto quotidiano, Repubblica» che «imputano al governo le regole della governance Rai» scritte dal governo di Matteo Renzi del 2015, ripete la premier. Che si dice comunque "laica" su una eventuale riforma, giudicata «pessima», dice, dagli stessi che l'hanno voluta. «Niente da dire" nemmeno sulle indiscrezioni di una possibile privatizzazione mentre sulle nomine, visto anche che «si è dimessa la presidente", Marinella Soldi, «bisognerà procedere nelle prossime settimane», spiega senza indicare però una deadline precisa. Non dice nemmeno quando il governo farà il suo nome, o i suoi nomi, per il ruolo di commissario europeo. «C'è tempo fino al 30 agosto», osserva la premier, salvo rivelare che i contatti con la presidente tedesca sono già in corso per la definizione delle deleghe. A cui è legato a doppio filo l'ipotetico candidato che, al momento, rimarrebbe sempre Raffaele Fitto. Bisognerà fare una «valutazione coi partiti della maggioranza» aggiunge Meloni assicurando comunque che sarà il primo dei temi che affronterà non appena rientrata in Italia. Prima di Roma Meloni potrebbe andare a tifare azzurri alle Olimpiadi di Parigi con la figlia Ginevra, che la sta accompagnando nel viaggio. Lasciando l'hotel non lontano da Piazza Tienanmen la premier gioca con le trecce della figlia, che si infila con la capo segreteria Patrizia Scurti nella Hongqi, ('Red Flag'), l'auto di rappresentanza mandarina. E in volo verso Shanghai pubblica una foto del loro arrivo, sul tappeto rosso giù dalla scaletta dell'aereo di Stato, con una dedica "ti amo topolina mia. Ovunque, insieme". Qualche ora per assaporare le tradizioni cinesi c'è stata ("il salmone" e gli "spaghetti con il brodo" i piatti preferiti dalla premier) ma la pioggia battente di Pechino ha fatto saltare la visita alla Città Proibita. In compenso nella residenza di Stato di Xi c'è stata invece l'occasione per affrontare «tutti i temi dell'agenda internazionale», non solo le questioni legate al «riequilibrio della bilancia commerciale», tra i principali obiettivi del nuovo Piano triennale. Il Medio Oriente, con il conflitto che si potrebbe estendere al Libano desta «preoccupazione», dice Meloni invitando Israele a "non cadere nella trappola dell'escalation". Ma con Pechino rimane «l'aggressione russa all'Ucraina», insiste la premier, il dossier più delicato. Non svela le risposte del presidente della Repubblica popolare ma assicura di avere posto in modo "chiaro" la questione del sostegno cinese a Mosca. La Cina «non ha alcuna convenienza a Io penso che la Cina non abbia alcuna convenienza in questa fase a sostenere la capacità industriale russa», questo «crea frizione». Dovrebbe invece esercitare la sua influenza, «partendo dai principi di sovranità e integrità territoriale, che pure sempre rivendica»  per diventare «un soggetto risolutore». Per trovare «una pace giusta in Ucraina».

 

 

 

 

Le opposizioni denunciano "l'editto cinese"

In Transatlantico c'è già chi l'ha ribattezzato "l'editto cinese», versione aggiornata di quello bulgaro di Silvio Berlusconi contro Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi. Stavolta ad attizzare lo scontro sono state le parole pronunciate a Pechino dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni sulla "strumentalizzazione" del report di Bruxelles sull'Italia. Gli «accenti critici» su premierato e libertà di stampa, ha detto la premier, non sono farina del sacco dell'Ue, ma solo citazioni «di alcuni portatori di interesse, diciamo stakeholder: il Domani, il Fatto Quotidiano, Repubblica...» Una «lista di proscrizione», l'hanno subito definita le opposizioni, richiamando anche l'atteggiamento del governo con la Rai, ribattezzata sarcasticamente: TeleMeloni. La premier «vuole interpretare a suo modo le contestazioni che sono nel report sullo Stato di diritto e che riguardano la situazione grave e critica della libera informazione in Italia - ha detto il presidente del M5s, Giuseppe Conte - E' del tutto inopportuno, dovrebbe rispondere puntualmente e cercare di ovviare». Per l'europarlamentare Sandro Ruotolo, della segreteria Pd, «definire un giornalista anti Meloni significa esporlo anche fisicamente. Si tratta di un attacco gigantesco contro la libertà di informazione». Dura anche la Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana): «Il concetto dei giornalisti anti Meloni - hanno scritto la segretaria generale Alessandra Costante e il presidente Vittorio di Trapani - ricorda fin troppo da vicino le liste di proscrizione, una pratica inaccettabile che, purtroppo, ci riporta ancora al punto di partenza: la deriva illiberale che qualcuno vorrebbe far imboccare all'Italia». Lo scontro rappresenta l'ultimo capitolo della saga nata con il report Ue sullo stato di diritto in Italia, a cui è seguita una replica via lettera di Meloni a Bruxelles. «Non è addossando la responsabilità al lavoro di alcuni colleghi più sensibili di altri al tema della libertà di stampa che la politica può sottrarsi dal confronto su ciò che sta accadendo nel Paese, in Rai o anche nelle procedure per vendita dell'agenzia Agi», ha sottolineato la Fnsi. Dure le repliche dalle testate chiamate in causa da Meloni. Le considerazioni della premier «tradiscono la sua idea illiberale del giornalismo e del ruolo che il giornalismo ha in una democrazia compiuta - ha scritto la direzione di Repubblica - Confermando in questa maniera le obiezioni che il rapporto di Bruxelles le ha sollevato». Per il cdr del quotidiano «la situazione è critica e il livello di intimidazione è alto», ma «minacce e azioni coordinate da squadrismo mediatico - hanno scritto i giornalisti - non ci spaventano né ci faranno arretrare di un millimetro». Il Fatto Quotidiano portatore di interessi? «Lo confermo - è la risposta del direttore Marco Travaglio - l'unico interesse che portiamo è quello dei nostri lettori ad essere informati». Per il Domani è intervenuto il direttore Emiliano Fittipaldi: «Invece di entrare nel merito della gestione della Rai e relative censure e propagande», Meloni «ha scelto la sua arma preferita: quella del vittimismo».

 

Entro quattro giorni giudizio immediato per Toti

Quattro giorni per la decisione, ma la scansione temporale dei prossimi passi sul fronte dell'inchiesta sulla corruzione in Liguria guarda già a dopo l'estate. Ieri la procura di Genova ha formalizzato la sua richiesta al gip Paola Faggioni di sottoporre a giudizio immediato l'ex presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, insieme al terminalista Aldo Spinelli e all'ex presidente dell'autorità portuale Paolo Emilio Signorini. Una richiesta arrivata dopo una consultazione tra i pm titolari dell'indagine, e poi comunicata direttamente ai legali dei principali indagati che sono stati convocati negli uffici di palazzo di giustizia. La formalizzazione della richiesta arriva prima della decisione eventuale sull'istanza di revoca avanzata dal legale di Toti al giudice, che se accolta avrebbe potuto bloccare l'iter essendo richiesta per il giudizio immediato la presenza in essere di misure cautelari restrittive come quelle dei domiciliari ai quali l'ex presidente di Regione è sottoposto dal 7 maggio scorso. Sul tema, è chiamato ancora una volta a decidere il gip che si pronuncerà entro i prossimi quattro giorni. Ma scatta anche un altro conto alla rovescia, determinante nell'incidere o meno sull'andamento di tutto il procedimento. Entro un limite massimo di 15 giorni gli imputati dovranno scegliere se avanzare eventuali richieste per accedere ad eventuali riti alternativi, come il rito abbreviato oppure il patteggiamento. Vasto anche il materiale che la procura ha allegato come fondi di prova che verrà messo a disposizione delle difese per essere studiato e approfondito, dopodiché se il gip dovesse dare parere favorevole accogliendo la richiesta di giudizio immediato cautelare le tempistiche per l'avvio del processo vero e proprio dovrebbero essere brevi, fine settembre o inizio ottobre la scansione temporale. Il procedimento si sdoppierebbe inoltre, in caso di giudizio immediato, in due tranche: una legata ai reati principali contestati, l'altra che rimarrebbe fuori e destinata ad un procedimento parallelo legata invece all'ipotesi di finanziamento illecito riguardante Toti.