Dal disastro dell'autonomia differenziata al deterioramento dei diritti delle donne. Fino al doppio standard con l'Ue e l'incapacità di gestire i flussi migratori. L'ex presidente della Camera spiega a L'Espresso l'iniquità del governo di Giorgia Meloni

Meno 24 posizioni. Secondo il Global Gender Gap Report del World Economic Forum, l’Italia negli ultimi due anni è passata dal 63° posto nella classifica sulla parità di genere all’87° su 146 Paesi. A causa soprattutto della scarsa partecipazione femminile al mondo del lavoro. Ma anche per il punteggio basso sull’aspettativa di vita in salute e a proposito di rappresentanza politica. Così, da quando a guidare l’Italia c’è la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, la condizione delle donne si è deteriorata. Ma questa non è l’unica contraddizione che segna un Paese sempre più diseguale, povero e vecchio, in cui il divario tra i fatti e la loro narrazione si allarga a dismisura.

 

Onorevole Laura Boldrini, come è possibile che da quando c’è una donna a capo del governo la vita delle altre sia peggiorata?
«È la differenza tra leadership femminile e femminista: Meloni ce l’ha fatta, ma ha portato a casa una vittoria solo sua. Non lotta per smantellare il patriarcato, lo rafforza. Manipola l’opinione pubblica sulla legge 194, dice che non la toccherà, mentre ci sono Regioni con il 100 per cento di medici obiettori di coscienza. E invece di incoraggiare i concorsi per non obiettori, finanzia le associazioni anti-scelta per convincere le donne a non abortire, come se fossero incapaci di decidere da sole. Così la 194 diventa inapplicabile. Dalla prima donna a capo del governo mi sarei aspettata, ad esempio, subito un piano straordinario per l’occupazione femminile e per risanare il gap salariale. Invece niente. Così la società non evolve e le donne si trovano ad affrontare le stesse difficoltà di sempre, che anzi si aggravano».

 

Ma in Italia non è solo l’occupazione femminile a essere sotto la media Ue. Anche la natalità è tra le più basse. Che cosa stiamo facendo per incentivarla?
«Solo narrazione. Mentre per contrastare la denatalità servono azioni concrete come nuovi asili e più servizi per l’infanzia. E, appunto, un piano per l’occupazione femminile e giovanile, in modo che le coppie abbiano la stabilità economica necessaria a fare figli. Battersi per il salario minimo a 9 euro, quindi, significa impegnarsi anche per la natalità. Trasformare la proposta di legge delle opposizioni in una delega al governo che non entrerà in vigore vuol dire il contrario. Servirebbe anche un grande lavoro culturale sulla condivisione dei compiti per la gestione della famiglia e del carico di cura. Non è impedendo l’aborto che si incentivano le nascite ma favorendo l’uguaglianza tra i generi e dando alle donne la possibilità di scegliere. Per favorire la natalità bisogna, insomma, costruire un Paese che pensi al futuro dei giovani che, invece, lasciano in centinaia di migliaia l’Italia alla ricerca di condizioni migliori».

 

I dati, infatti, dicono che in Italia la povertà cresce. Secondo l’Istat, abbiamo toccato il record peggiore degli ultimi 10 anni. Ma contemporaneamente anche l’occupazione aumenta. Che tipo di mercato del lavoro stiamo strutturando?
«L’Italia è ormai un hub del lavoro povero e precario. E del fossile. Le aziende cercano manodopera a basso costo e non lavoro di qualità, così la competitività si gioca sul ribasso dei salari, fermi da 30 anni. La teoria neoliberista secondo cui se favorisci i ricchi la ricchezza poi “sgocciola” su tutti ha fallito, perché viviamo in società sempre più diseguali. Per invertire la rotta bisogna redistribuire le ricchezze - con la leva fiscale, altro che flat tax! -, e incentivare il lavoro qualificato a tempo indeterminato. Invece, in un Paese di disuguaglianze territoriali si approva l’autonomia differenziata, una riforma scellerata e anacronistica: oggi grandi temi come energia, infrastrutture, ricerca, ambiente, si gestiscono a livello internazionale. Che senso ha affidarli alle regioni? Stanno facendo 20 staterelli che mineranno il sistema Paese e peggioreranno la vita di tutti al Sud come al Nord. Solo per accontentare Calderoli. Così Meloni ottiene in cambio il premierato e tiene insieme il governo. E la Costituzione diventa una merce di scambio».

 

A proposito delle contraddizioni su cui si regge il mercato dell’occupazione: da un lato, ci sono gli imprenditori che lamentano di non trovare forza lavoro; dall’altro, i migranti che vorrebbero migliorare le proprie condizioni di vita. Perché non c’è una strategia per incrementare i canali d’ingresso regolari?
«Sì, un’altra contraddizione. In Italia esiste un problema di reperimento di lavoratori, soprattutto in alcuni settori. Perché gli italiani optano per lavori retribuiti meglio. Ed è lì che subentrano i migranti irregolari che vivono da anni le stesse condizioni di degrado e sfruttamento che hanno ucciso Satnam Singh. Ma il governo Meloni non vuole gestire l’immigrazione, preferisce usarla in modo strumentale. Così di notte il Consiglio dei ministri approva il decreto flussi per far entrare 500mila migranti in tre anni, che non sono comunque sufficienti a coprire il fabbisogno. E di giorno approva il decreto Cutro, la procedura accelerata alla frontiera, riduce le tutele per i migranti minori non accompagnati e alimenta la paura: la grande ipocrisia».

 

Un doppio standard frequente nelle politiche del governo Meloni. L’abbiamo visto anche con l’Ue, giusto?
«La presidente fa “Giorgia” a casa e “Meloni” in Europa. Così gioca due parti in commedia. Quella che grida contro le “tecnocrazie europee”, e quella che accetta le condizioni di Bruxelles sul Patto di Stabilità mentre fa astenere i suoi eurodeputati. Da una contraddizione all’altra. La battaglia da portare avanti in Europa sarebbe stata, invece, quella sulla transizione ecologica che non è più rimandabile e si può fare solo con un debito pubblico comune, come è stato con il Next generation Eu che ci ha consentito di affrontare le conseguenze della pandemia. Invece, rispettare il nuovo Patto di stabilità ci costerà 12 miliardi l’anno: l’austerità è già tornata».