Mostra del cinema di Venezia
Tutta confezione e poca emozione per "Maria", il film sulla Callas
Il grande cileno Pablo Larrain firma un lavoro progettato per il mercato internazionale con Angelina Jolie nei panni della Divina. Non mancano i tocchi di classe, ma ci si aspettava ben altro
Tutto quello che sapevamo già di Maria Callas, o potevamo immaginare, in un film di sontuosa confezione e scarsa emozione firmato da un grande regista, il cileno Pablo Larraìn, già autore di lavori decisamente più ispirati sulla sanguinosa storia del suo paese come Tony Manero, El Club, Neruda, il recente El Conde (in concorso l'altr'anno a Venezia poi direttamente su Netflix), che faceva di Pinochet un vampiro volteggiante e insaziabile.
Speravamo che “Maria” (una Angelina Jolie, tutta magrezza e micromimica labiale) avrebbe riportato Larraìn al genio e agli eccessi di lavori come il bellissimo Ema, forse l'ultimo film veramente suo. Invece questo biopic dedicato agli ultimi giorni della grande cantante lirica, chiusa nella sua sontuosa dimora a Parigi con i domestici e confidenti Alba Rohrwacher e Pierfrancesco Favino, visitata da visioni e ricordi, crudelmente confrontata al declino fisico e artistico, segna una specie di passaggio di ruolo. Da autore di un cinema personalissimo e provocatorio a “garante” di grandi biopic pensati per un mercato internazionale sempre più avido di “firme” ma strutturalmente poco incline a libertà e novità.
Ed ecco, a cascata, flashback e allucinazioni, fantasmi del passato e ferite mai rimarginate, sogni sepolti e colpe rimosse, l'ufficiale tedesco che scoprì il suo dono per il canto quando era giovane e sconosciuta (una delle scene più belle del film, non sono certo i bei momenti a mancare) e Onassis che la adula, la corteggia, la seduce, rubandola al marito Meneghini sotto i suoi stessi occhi in una sola scena.
Il meglio è in certi tocchi ironici, Alba Rohrwacher che le fa la frittatina mentre lei canta (o tenta di cantare) Casta Diva in vestaglia, i barboncini basìti per i suoi acuti stonati, Favino maggiordomo premuroso che si rovina la schiena spostando continuamente per casa il pianoforte, la Divina che getta platealmente il flacone di psicofarmaci ma prima semina pillole nelle tasche di tutti i suoi vestiti, eccetera. Il peggio nell'enfasi in agguato anche dietro le scelte più interessanti, nell'uso sempre molto ovvio delle arie liriche a commento di quanto accade sullo schermo, nelle inevitabili scene di chiarimento e spiegazione (“cameo” di Valeria Golino nei panni della sorella) alternate a quelle più libere e visionarie. Poi magari in sala (dal 1° gennaio 2025) sarà un trionfo, ma in Concorso a Venezia non aveva nulla da dimostrare se non che Larrain ha fatto e potrebbe ancora fare ben altro.