Un centro diurno per adulti con disturbi mentali: si chiama Adamant ed è una comunità fusa nella città. Dove la cura si fa pratica politica ed etica

Piove a vento. L’Adamant ondeggia sulla Senna seguendo il movimento del fiume: destra, sinistra, destra, sinistra. Ogni tanto si affaccia il sole, poi il cielo si richiude e ricomincia a piovere a dirotto. «Sei in ritardo», dice qualcuno mentre entro nel ventre del battello e mi accomodo nell’ultima poltrona libera nella stanza. La luce opaca del giorno scivola sul legno liscio e scuro del battello: costruito nel 2010 su progetto dell’architetto Gérard Ronzatti, l’Adamant è un centro diurno che accoglie pazienti adulti con disturbi psichici provenienti dai primi quattro arrondissement di Parigi e che dipende dal Polo psichiatrico di Parigi Centro. La cura qui è una questione che riguarda tutti e che non passa attraverso camici bianchi o divisioni nette: malato o sano, paziente e operatore. È una pratica che mette al centro la persona e le sue relazioni. «Da qui passano scrittori, poeti, musicisti…passeggeri», spiega Arnaud Vallet, dirigente sanitario e coordinatore dell’Adamant.

 

Rhizome” è l’assemblea che si svolge il venerdì nella biblioteca della struttura. «Ma quindi come mi accolgono? Se sto male, dove vado: finisco per strada?», domanda Mamady incuriosito dal racconto della riforma Basaglia in Italia. «Se non ci sono ospedali, non c’è cura», contesta qualcuno. «L’Adamant è un luogo di cura dove l’assistenza assume diverse forme», spiega Mamady. «Infermieri, psicologi, terapeuti; ci sono un sacco di persone che sono lì per supervisionare», e questo contributo continuo rassicura. «È un laboratorio dove la discussione è una forma di terapia. L’aspetto positivo è che si viene interrotti se si esce dal discorso per tornare alla domanda iniziale, ma non c’è giudizio», dice Caroline prendendo parola. 

 

Cinema e vita
L'utopia dell'Adamant, la barca sulla Senna dove la follia è una realtà aumentata
04-03-2024

 

«Quando si è un po’ malati non ci si rende conto di ciò che la vita ha da offrire. Ma qui si impara a vivere con le persone, in comunità, e a discutere di scambi umani». Il battello ondeggia sotto la forza del temporale, la luce filtra dalle finestre: sui muri sono attaccati poster di eventi passati, serate di cinema e di musica, mentre pile di libri sono riposte ordinate nei diversi scaffali. «È un luogo per combattere l’isolamento, perché la malattia mentale tende a rinchiuderti nella solitudine. Credo che la follia sia proprio questo, l’assenza di legami sociali che invece ti permettono di tornare a una certa normalità», spiega Frédéric sfogliando pigramente una rivista. «Credo che per la maggior parte delle persone sia un punto di ancoraggio per non perdersi nel mondo esterno. È come andare al lavoro, una bussola», continua Jean Pierre stringendosi nella giacca marrone: «Là fuori sei perso nella folla, anonimo. Solo. Qui sei meno anonimo».

 

«Abbiamo circa quattromila persone che frequentano l’Adamant ogni anno», spiega Arnaud. Nel centro ci sono corsi di pittura, musica, lettura o scrittura, ma anche attività all’aperto come il teatro. La struttura è divisa in due piani: nel primo – quello «clinico» – si lavora con persone che soffrono quotidianamente e si reintroducono «il desiderio, il soggetto, l’espressione del singolo», il suo linguaggio. Poi c’è il secondo, «quello che chiamiamo club terapeutico, che ha la sua sede sulla barca, ma è diffuso in tutta la città: nel municipio, nei centri sociali, nelle gallerie d’arte o nei bar della comunità. È un’associazione di salute mentale che permette ai pazienti di essere qualcosa di diverso dai pazienti». La malattia mentale toglie il contatto reale con l’essenziale, ciò che la maggior parte delle persone compie meccanicamente in un esercizio interiorizzato e acquisito. 

 

«Non si tratta solo di isolamento e solitudine, ma anche delle preoccupazioni della vita quotidiana. Si chiama perdita dell’evidenza naturale, le persone hanno una preoccupazione nel loro rapporto con il mondo, con gli altri e con gli oggetti», spiega Arnaud. «Tu, quando ti alzi, ti fai un caffè, non ci pensi nemmeno. Nelle persone di cui ci occupiamo l’idea di mettere un filtro della giusta dimensione con la polvere e l’acqua, di aspettare che esca, di bere prima che sia freddo, un po’ tiepido o tutto in una volta…ogni cosa diventa ostile». L’Adamant è il risultato di una co-costruzione tra chi assiste, chi è assistito e la società, «c’è una combinazione permanente tra professionisti della salute e utenti che deve includere sempre la città, il rumore, le voci, le persone e viceversa».

 

La salute mentale è una questione di reti, non di luogo, e «la funzione di cura può essere condivisa», spiega Linda De Zitter, psicologa clinica e psicoanalista del centro. «Il club terapeutico permette a tutti noi, indipendentemente dal nostro status di pazienti, assistenti, tirocinanti, psichiatri, psicologi o infermieri, di prendere iniziative e responsabilità. Ciò permette alla persona che viene qui di essere accolta in un’atmosfera non troppo calda o fredda, non troppo interpretativa né persecutoria, di poter sperimentare, nell’incontro con l’altro, altri modi di stare al mondo e di relazionarsi». La cura è anche nello svincolarsi dallo status assegnato, dal ruolo istituzionale: si va alle radici, alle passioni, a ciò che muove la persona. La psichiatria dell’Adamant è artigianale, militante, «si fa anche sbagliando. È un processo essenziale che ha davvero una dimensione politica ed etica e che ci obbliga a ricreare e a co-creare ogni giorno la vita quotidiana tra chi cura e chi è curato», conclude Linda. Uscire dagli schemi, cercando parole, senso e desideri. Per poi chiedersi: «Il compito di accogliere le persone è solo degli operatori o anche dei pazienti?».