Le biografie del procuratore Lo Voi e dell'avvocato Li Gotti sono lontane dal cliché che riconduce al complotto di sinistra. E verificare se siano stati commessi reati di fronte a un esposto che li adombra è esattamente quello che fa la magistratura nello Stato di diritto

Cambia il tema ma il copione è sempre lo stesso: il complotto. L’ennesima cospirazione contro il buon governo, opera di burattinai della sinistra, al servizio dei quali ci sarebbero, in questo caso, nientemeno che il procuratore di Roma Franco Lo Voi e l’avvocato Luigi Li Gotti. Questa è la versione di Giorgia. Questo il senso e le parole del messaggio a social unificati con il quale la premier Meloni ha dato notizia di essere indagata per la vicenda Almasri - insieme con i ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e al sottosegretario Alfredo Mantovano.

Il caso ruota intorno all’indagine, ancora tutta da esperire, sull’opaco e frettoloso rimpatrio in Libia del criminale internazionale, capo della polizia di Tripoli, rispedito a casa con aereo di Stato della compagnia in uso ai nostri Servizi. Un rimpatrio che ha neutralizzato un tardivo mandato d’arresto della Corte penale internazionale. Li Gotti è l’autore dell’esposto in cui si ipotizza il favoreggiamento nei confronti di Almasri e il peculato per l’uso dell’aereo. Lo Voi, procuratore di Roma, è l’autore dell’avviso recapitato alla premier e ai suoi con il quale si dà notizia della loro iscrizione nel registro delle notizie di reato e della contestuale trasmissione degli atti al tribunale dei ministri. Fin qui una prassi assolutamente trasparente. Dal momento che l’esposto di Li Gotti non è un anonimo e in Italia c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, Lo Voi ha compiuto quello che la legge gli imponeva di fare.

 

 

Poteva cestinarlo? No. Poteva indagare lui? No, perché si tratta di reati ipotizzati a carico di componenti del governo. Per la premier ha invece compiuto un oltraggio, un atto di lesa maestà che la dice lunga sull’ondivago senso delle regole, piegate all’interpretazione, cui si è subito accodata la schiera dei suoi supporter, fuori e dentro il Palazzo. Ma poiché era difficile argomentare in punto di diritto, è più semplice buttarla non in politica, che sarebbe nobile, ma in dietrologia. Così Li Gotti è liquidato come avvocato di mafiosi, vicino a Romano Prodi e Lo Voi un magistrato la cui biografia agli occhi della premier si segnala solo per il processo Open Arms a carico di Matteo Salvini, alludendo neanche troppo velatamente a una ostilità antigovernativa preconcetta del magistrato.

 

Se solo gli zelanti collaboratori della presidente si fossero presi la briga di un rapido giro d’orizzonte, consultando fonti aperte, senza scomodare gli apparati della nostra intelligence, avrebbero scoperto e suggerito prudenza nell’affibbiare patenti di sinistrismo. Moderato, nell’associazionismo schierato a destra, il siciliano Lo Voi, è tutto tranne che una toga rossa, tanto da avere incontrato lungo il suo cammino l’avversione proprio dei colleghi più progressisti. Accadde, ad esempio, per la nomina a procuratore di Palermo e accadde anche quando fu designato alla procura di Roma. Nel suo curriculum, poi, non c’è solo Salvini ma un lungo elenco di processi per mafia, un incarico a Eurojust e una specializzazione nelle connessioni tra il crimine organizzato nostrano e le reti internazionali.

 

Li Gotti, calabrese, non è un avvocato di mafiosi ma di collaboratori di giustizia, tecnicamente quindi ex mafiosi. Ha difeso Giovanni Brusca, il boia di Capaci, ma anche Tommaso Buscetta, ovvero il “pentito” con il quale Giovanni Falcone e il pool iniziarono a imbastire il maxiprocesso alla mafia. Anche Li Gotti non è di sinistra. Lo racconta la sua militanza nel Movimento sociale e in Alleanza nazionale fino all’approdo a Italia dei valori. È un legalista, come lo erano un tempo, gli irriducibili della fiamma. È stato sottosegretario alla Giustizia nel governo di Prodi, con il quale dice di non aver mai avuto occasione di scambiare neppure una parola, e poi senatore con Di Pietro.

 

Nulla di questo era utile alla narrazione di Meloni che ha l’indubbio merito di aver spostato l’attenzione dagli indicibili accordi con la Libia che stanno dietro la vicenda Almasri alla dietrologia complottarda sul suo conto. Con una personalizzazione che le fa dire di non essere ricattabile e di non avere nulla da temere. Ora, è pacifico che con la Libia si siano fatti accordi sulla pelle dei migranti, a partire dal protocollo del governo di centro sinistra di Paolo Gentiloni, ministro Marco Minniti. Che quegli accordi abbiano aperto la strada a una esternalizzazione delle frontiere che affida ai lager nordafricani la custodia e spesso la tortura dei migranti respinti nel Mediterraneo o rispediti indietro dalle nostre coste. È molto probabile che Almasri e il suo rimpatrio siano il prezzo da pagare ai libici per le postille di intese non divulgate nel dettaglio. Rispedendo a casa un criminale ricercato si è forse compiuta una discutibile ma necessaria operazione che obbedisce a una malintesa ragion di Stato, coincidente con gli interessi del governo. Pretendere però di essere sopra la legge e gridare alla cospirazione di fronte alle obiezioni e alla legittima ipotesi sull’esistenza di reati ha molto poco a che fare con la democrazia.  

 

Affidarsi a biografie rabberciate, ad accostamenti suggestivi tra persone, attribuire patenti fasulle è invece un'operazione scomposta di pura propaganda. La politica abita altrove.