In uno Stato di diritto “le sentenze si rispettano” e, se non convincono, “si appellano”

La sentenza nei confronti del sottosegretario Andrea Delmastro, condannato a 8 mesi per rivelazione di segreto d'ufficio, ha rinfocolato lo scontro fra politica e magistratura. La decisione del Tribunale di Roma è arrivata ieri - 20 febbraio -, a una settimana dallo sciopero dei magistrati contro la riforma che prevede, tra l’altro, la separazione delle carriere dei magistrati fra giudicanti e pubblici ministeri. Il governo Meloni giustifica la riforma con il presunto “appiattimento” delle decisioni dei giudici sulle richieste dei pm. Eppure, la sentenza Delmastro dimostra l’esatto contrario: per ben due volte i giudici requirenti hanno richiesto l’assoluzione dell’imputato.

 

Nella narrazione della maggioranza, che trova in quanto accaduto ieri lo stimolo a proseguire sul terreno delle riforme contestate dai magistrati, la critica non è rivolta contro i pubblici ministeri. Solitamente sono i giudici requirenti a essere accusati di volere, contro ogni evidenza, la condanna degli imputati. Nel caso di Delmastro, il centrodestra si scaglia contro i magistrati giudicanti, tacciati di emettere sentenze politiche favorevoli alla “sinistra”.

 

Le motivazioni della sentenza si conosceranno nel dettaglio e nei termini previsti, ma sono doverose alcune considerazioni. Primo, le richieste di archiviazione (prima) e di assoluzione (dopo) dei pubblici ministeri, peraltro rappresentati ai massimi livelli da quella Procura di Roma, diretta da Lo Voi - con la quale è in atto un pesante scontro politico –, erano basate sulla mancanza dell’elemento psicologico del reato. Secondo, il fatto storico della divulgazione di informazioni riservate riguardanti detenuti ristretti al 41 bis era ed è pacifico. Terzo, le motivazioni della sentenza dovranno spiegare le ragioni per le quali, viceversa, quell’elemento essenziale per la condanna è stato ritenuto sussistente.

 

Prima di ogni ragionamento, tuttavia, dovrebbe valere per tutti una cosa: in uno Stato di diritto “le sentenze si rispettano” e, se non convincono, “si appellano”. La critica alla sentenza basata sul fatto che i giudici che l’hanno emessa sarebbero “di sinistra” è pericolosissima, poiché apre varchi preoccupanti. Dovremmo accorgerci che, così ragionando, lo scontro politico travolge i capisaldi della Costituzione. Da adesso in poi, il sospetto sulla figura del giudice (si badi bene, del giudice e non del pubblico ministero) sarà una motivazione che potrebbe invocare qualsiasi condannato, anche per omicidio o per mafia. Lo Stato di diritto ne sarebbe travolto. È questo che vogliamo?