Politica
marzo, 2025

"D'Alema c'è": il ritorno dell'ex premier (per la gioia delle tribù della sinistra, sempre in cerca di nomi tutelari)

Massimo D’Alema, in passato segretario dei Ds, premier (1998- 2000) e ministro degli Esteri (2006-2008)
Massimo D’Alema, in passato segretario dei Ds, premier (1998- 2000) e ministro degli Esteri (2006-2008)

Convegni, incontri, università, persino cortei. Dopo un anno in eclissi riappare il già presidente del Consiglio: "Io non me ne sono mai andato, eh"

Nelle ultime settimane è sembrato come quella scritta “Dio c’è” che nei primi anni Ottanta compariva misteriosamente sui cartelli a bordo strada, agli svincoli, piazzole, cavalcavia d’Italia. “Dio c’è”, fenomeno mai davvero spiegato. “D’Alema c’è”, e anche qui un certo mistero non manca. Massimo, figlio di Giuseppe dirigente e deputato del Pci, 75 anni, consigliere comunale a Pisa a soli 21, segretario della Fgci, segretario dei Ds, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, parlamentare, membro del board dei Lari e Penati della sinistra italiana, sempre un po’ divinità per quelli che tra politici e giornalisti ne hanno venerato l’intelligenza sprezzante. Divinità caduta malamente quando è stato indagato con l’ipotesi di corruzione internazionale aggravata per il presunto ruolo di mediazione in una compravendita di navi e aerei militari alla Colombia, divinità da recuperare ora che la procura di Napoli ha chiesto l’archiviazione ma soprattutto perché – pensano taluni ex Pci – in fondo, uno come D’Alema chi mai ce lo ridà. Ecco il segreto di questo ritorno, come di altri sommovimenti di cui ora si dirà: mai sottovalutare la perenne fame di un nume tutelare che caratterizza quelle tribù, specie adesso che a capo del partito c’è Elly Schlein con il suo pedigree sbagliato (troppo donna, troppo poco comunista) e le sue pretese di fare, invece che lasciar fare.

 

Basti dire, per il capitolo venerazione, che l’ultima volta di D’Alema, alla Camera, è finita con due giovani democratici che gli chiedevano l’autografo sull’antico volantino di un incontro tra l’ex segretario e lo spagnolo Felipe Gonzalez, spuntato proprio ora tra i libri della biblioteca di Lettere alla Sapienza. E con l’ex segretario che, grato, mostrava loro la foto recente dell’ex premier spagnolo a una cena, inviatagli dal primo ministro albanese Edi Rama a inizio febbraio.

 

Si era davanti alla sala Berlinguer a Montecitorio, mercoledì 26 febbraio, per la prima volta dopo un secolo. D’Alema presentava l’ultimo numero della rivista della Fondazione Italianieuropei insieme con Giulio Tremonti, come se per un attimo si fosse ancora ai tempi di Prodi e di Berlusconi. Assiepata, a celebrare l’evento, tutta la platea dei dovuti a rendergli omaggio: in prima fila il fu Articolo 1 con Arturo Scotto e l’ex ministro Roberto Speranza, ma anche il custode materiale della memoria del Pci-Ds Ugo Sposetti e il più assiduo tra i giovani frequentatori di quello spirito, Peppe Provenzano; mentre Gianni Cuperlo stava di lato sulle scalette, Pierluigi Bersani più discosto, in fondo, con Enzo Amendola e Nico Stumpo. Qui l’argomento era la pace giusta, Israele e Palestina. In controluce l’ubiquità dell’ex presidente del Consiglio: D’Alema ha ricordato di esserci stato in Terra Santa con i francescani della Custodia e con il vicario Ibrahim Faltas, aver incontrato e «conosciuto bene Ehud Olmert durante la crisi del Libano», essere stato «fra i testimonial, il capo era Jimmy Carter, della conferenza di Ginevra dove un gruppo di personalità lo scrissero, un trattato di pace tra Israele e Palestina», di essere stato quasi cacciato da Arafat perché «sono stato io ad andare alla Muqata’a sotto assedio per dirgli che doveva lasciare il posto ad Abu Mazen, per incarico dell’Internazionale socialista», e via dicendo. Massimo d’Alema c’era, Massimo d’Alema c’è. Alla Fondazione Treccani per parlare di guerra e Usa, sempre con Tremonti, alla Sapienza per ricordare Palmiro Togliatti con Oliviero Diliberto e farsi contestare dagli studenti di Cambiamo rotta, alla Biblioteca della Camera con l’associazione degli ex parlamentari per parlare di Craxi, di Mani pulite e di quando, anni dopo, a una cena Antonio Di Pietro gli disse: «Noi volevamo abbattervi e liquidarvi tutti. Ma voi siete stati un osso duro».

 

Tutto è ricominciato a dicembre, quando Provenzano invitò l’ex premier al Nazareno, per il seminario su “l’Europa nel mondo in fiamme”: «Erano nove anni che non ci mettevo piede», disse D’Alema entrando al Nazareno. Ecco il segno, il ritorno, dopo aver vissuto quasi da eclissato l’intero 2024, e non un anno qualsiasi: quello delle celebrazioni di Enrico Berlinguer, il segretario-mito che, fra le altre cose, volle Massimo alla guida della Fgci dopo avere, vent’anni prima, stroncato l’ascesa di suo padre Giuseppe alla stessa identica carica (ma per raccontarlo D’Alema ha dovuto aspettare un invito a Monza, a ottobre). Silente il giorno dell’inaugurazione al Mattatoio di Roma della mostra organizzata dalla Fondazione Duemila, assente dal programma della Festa dell’Unità, pressoché ombra lungo la campagna delle europee, D’Alema ha rifatto capolino nel mondo a fine novembre, comparendo a sorpresa al corteo della Cgil (qualcuno ci legge un segno di avvicinamento a Maurizio Landini, si vedrà). E dove, proprio mentre le casse intonavano Contessa, volle definirsi «un vecchio militante che ogni tanto viene preso dalla nostalgia», salvo poi precisare: «Io non me ne sono mai andato, eh». Figuriamoci. «Massimo nei momenti importanti c’è sempre», disse in quell’occasione uno degli affezionati.

 

C’è, e non è peraltro l’unico. Anzi, la settimana scorsa ha reso bene l’idea di quanto un pezzo della dirigenza piddina, come sempre rigorosamente divisa in sotto-tribù, abbia fame di un nuovo-vecchio punto di riferimento e di quanto certuni ambiscano a splendere di nuovo e ancora. Un giorno dopo l’ostensione dalemiana alla sala Berlinguer della Camera, all’Auditorium della Federpensionati è tornato a mostrarsi Goffredo Bettini, previa intervista strategica e «discorsetto di impostazione», per dispiegare il bettinismo versione 2025. C’erano con lui Andrea Orlando come sempre, Roberto Gualtieri, Enrico Gasbarra, Michela Di Biase, Paolo Cento e, omaggio allo Zeitgeist, Ernesto Maria Ruffini nel ruolo di venerata promessa (Bettini ogni anno ne sostiene una: l’anno scorso era Francesco Rutelli, due anni fa Giuseppe Conte, entrambi quest’anno assenti). Tutti a parlare di un nuovo umanesimo e dell’incontro ormai necessario tra sinistra e cattolici, tra socialisti e cattolici, ma evitando accuratamente di menzionare un esperimento ormai noto, in questo senso. Quello del Pd, guarda caso. 

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