Il coro che la sosteneva al momento dell'elezione a segretaria non c'è più. Le sue ultime scelte hanno diviso il Pd. Che si prepara alla resa dei conti dopo le Europee

Molti libri sono stati scritti sulla solitudine del capo (e alcuni di essi cominciano con le parole di Epicuro: «Finché sarai fortunato, conterai molti amici; se ci saranno nubi, sarai solo»). Non sappiamo se Elly Schlein ne ha letto qualcuno, ma di sicuro oggi conosce bene questa condizione. Sono infatti passati quindici mesi da quando una votazione a sorpresa nei gazebo l’ha catapultata alla guida del Partito democratico e del coro di incoraggiamento di quei giorni, nei corridoi del Nazareno, ormai non si sente più neanche l’eco.

 

Le sue ultime mosse, che avrebbero dovuto ricompattare il partito attorno alla segretaria, hanno fatto emergere crepe, divisioni e dissenso. Voleva riscaldare i cuori dei vecchi compagni, ordinando di stampare l’immagine di Enrico Berlinguer sulle tessere del Pd, ma ha sentito crescere i mugugni dell’ala cattolica, quella che viene dalla Democrazia cristiana: «E perché non Aldo Moro?», le hanno chiesto.

 

Era tentata dall’idea di sfidare Giorgia Meloni candidandosi come lei in tutte le circoscrizioni per le Europee del 9 giugno, ma è stata fermata dalle donne a cui aveva già offerto un posto in lista, allarmate per la regola dell’alternanza di genere: «Se il voto alla donna lo danno a te, noi siamo fuori», le hanno spiegato. Allora lei ha proposto che venisse inserito il suo nome nel simbolo, per capitalizzare nelle urne i nuovi consensi attirati dalla sua elezione, ma è stata bloccata proprio dai notabili che un anno fa la portavano in processione, da Franceschini a Orlando, da Provenzano a Zingaretti: «Queste cose lasciamole fare agli altri», le hanno sussurrato.

 

La sua ultima mossa – firmare il referendum della Cgil per l’abolizione del jobs act voluto da Renzi – ha poi fatto venire allo scoperto il dissenso delle correnti interne, che l’hanno attaccata da due lati opposti: da una parte chi le rimproverava di contestare una legge firmata da un premier che era anche segretario del Pd, dall’altra chi le obiettava che se proprio voleva provare ad affondare il jobs act avrebbe dovuto anticipare Giuseppe Conte, non accodarsi quattro giorni dopo.

 

Poteva bastare. Ma poi lunedì è arrivato anche Goffredo Bettini, il Richelieu rosso che della sua scalata al Nazareno era stato l’ispiratore, rivelando a Fabrizio Roncone del Corriere della Sera che lui non sente Schlein dalla settimana successiva alla sua elezione, e che le rimprovera di aver fatto «molto poco» per riformare il partito, restando prigioniera di una «gestione solitaria».

 

La solitudine, dunque, è oggi il problema numero uno della segretaria. Lo fu, molti anni fa, anche per Achille Occhetto, quando dopo la caduta del muro di Berlino lui decise che era venuto il momento di cambiare nome al Partito Comunista Italiano. E lo fece, sapendo bene che «era come se un papa avesse dichiarato superata la verginità della Madonna», e dunque fu abbandonato da quei compagni più anziani che ancora credevano nel comunismo, ma poi fu lasciato solo anche dai dirigenti più giovani – un nome per tutti: Massimo D’Alema – che non riconoscevano la sua leadership e aspettavano l’occasione buona per fargli lo sgambetto.

 

Rispetto al compagno Akel, Schlein ha il vantaggio di non dover fare i conti con la storia. Però ha un appuntamento con le urne, e le rimane solo un mese per evitare di restare da sola a guardare, la sera del 10 giugno, l’asticella del 20 per cento.