Per misurare di quanto sia sceso nel tempo il peso della Lega sarebbe troppo facile un raffronto con le penultime elezioni Europee, quelle del maggio 2019, quando fu raggiunta la vetta del 34,3 per cento. Sarebbe troppo facile comparare il risultato di sei anni fa con la progressiva discesa del periodo successivo, che ha visto l’alleato-concorrente di Fratelli d’Italia e di Forza Italia crollare, alla fine, di oltre venticinque punti. La vittoria di Matteo Salvini avvenne in una prova elettorale, quelle delle Europee, che per i partiti ha sempre rivestito un significato particolare rispetto alle politiche, per la prevalenza di un voto di opinione destinato a essere fluttuante. Ne sa qualcosa Matteo Renzi, che dopo aver superato con il “suo” Pd proprio il 40 per cento alle elezioni per Strasburgo del 2014 non riuscì a mantenere quel primato, fino a perdere anche il referendum sulla riforma costituzionale.
«Vogliamo tornare a essere i primi della coalizione». Così il vicepremier ha cercato di galvanizzare la Lega concludendo il Congresso federale di Firenze. Salvini – rieletto segretario per acclamazione come candidato unico dopo che nei mesi scorsi era rientrato rapidamente nei ranghi lo sfidante Massimiliano Romeo e soprattutto grazie all’intesa con Luca Zaia – ha ricordato che al momento la collocazione all’interno della coalizione di governo è quella del «secondo partito». No, è il terzo, lo ha subito corretto il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Paolo Barelli, rivendicando il secondo posto ai post-berlusconiani, in base ai sondaggi che fotografano il sorpasso. Le rilevazioni degli ultimi tempi segnalano anche una lenta risalita rispetto all’8,9 delle Europee del giugno 2024 e all’8,8 delle Politiche di due anni prima. «Si tratta di un dato ancora instabile – osserva Antonio Noto – che continua a oscillare fra l’8 e il 9, non consentendo di dire che la Lega sia in crescita». Al momento «possiamo solo constatare –sottolinea l’esperto di sondaggi – che il partito di Salvini conserva i consensi, non perde ed è impegnato in un testa a testa con Forza Italia, che è avanti solo di mezzo punto». In sostanza, «il quadro non è cambiato rispetto alle scorse europee».
Junior Partner, alleato minore del destra-centro trainato da Fratelli d’Italia. È una condizione molto diversa da quella delle altre formazioni politiche della destra sovranista e populista. In Francia, il Rassemblement National lepenista è il primo partito anche nei sondaggi, nonostante la vicenda giudiziaria della sua leader, e ha abbondantemente scalzato i post-gollisti ormai minoritari. In Austria, il Partito della Libertà di Herbert Kickl ha vinto le ultime elezioni politiche (anche se non è riuscito a formare il governo, perché nessuno intende allearsi con una formazione politica che sconfina nel neo-nazismo). In Spagna, Vox di Santiago Abascal continua a essere in ottima salute, anche se all’opposizione. Ma il primato è dell’Ungheria di Victor Orbàn, il Paese guida dei Patrioti europei, dove regge, di fatto incontrastata, la “democrazia illiberale” (così definita dallo stesso premier).
La Lega resta una forza di minoranza rispetto agli altri Patrioti, ma «a differenza dei leader sovranisti europei che sono andati in scena al Congresso di Firenze, – osserva lo storico e politologo francese Marc Lazar, che studia la politica italiana – Salvini è al governo, oltretutto in una posizione che lo rende indispensabile e che gli consente un potere di ricatto nei confronti degli alleati». La Lega, ricorda il professore della Luiss, ha un rilevante radicamento al Nord, si è allargata al resto dell’Italia e raccoglie consensi alla destra di Fratelli d’Italia. «È sì una forza di minoranza rispetto al consenso elettorale di un passato irripetibile, quello di Umberto Bossi, ma ha l’ambizione di trasformarsi in un piccolo Rassemblement National all’italiana e in parte lo è già. Non è più la Lega Nord e ha abbandonato il ruolo del movimento che gridava solo contro Roma ladrona».
Da una posizione di interdizione, l’unica che al momento possa utilizzare, Salvini intende ricavare tutto il possibile, ma con un’accortezza legata ai rapporti di forza e al rischio che, in caso di rottura, si torni alle urne. Lo dimostra la doppia mossa sul Viminale, prima un’accelerazione in occasione del Congresso, con la richiesta di tornare alla guida del ministero dell’Interno, poi la frenata resa obbligata dai dinieghi arrivati da Giorgia Meloni, da Forza Italia e dallo stesso Matteo Piantedosi. A Salvini le Infrastrutture vanno strette e ogni guasto o ritardo nel traffico ferroviario viene addebitato al ministro. Quanto al Ponte sullo Stretto, fra il dire e il fare – è proprio questo il caso – c’è di mezzo il mare. Il progetto arranca, anche davanti alle verifiche ambientali che si riserva di effettuare Bruxelles nonché ai ricorsi al Tar.
Non se la vede meglio il ministro Calderoli, numero due della squadra di governo targata Lega, che deve sobbarcarsi il compito di cambiare la legge sull’Autonomia differenziata, nella direzione chiesta dalla Consulta: è subito ricominciato il braccio di ferro con Forza Italia, che nasce anche dall’impazienza dei governatori leghisti del Nord, a partire da Zaia, ma non condivisa dagli alleati che temono una divaricazione fra Nord e Sud. Forse il referendum abrogativo, chiesto dalle opposizioni ma poi annullato dalla Corte Costituzionale, sarebbe stato per la Lega il male minore. Di più, l’occasione per difendere la legge approvata dal Parlamento davanti agli italiani senza compromessi sul testo all’interno della maggioranza.
Il contraccolpo più forte, però, potrebbe arrivare dalla vicenda dei dazi. Rispetto alle forti preoccupazioni degli imprenditori italiani il “trumpiano” Salvini, il leader che più di Meloni aveva ostentato la propria simpatia e anche identificazione con il tycoon, è in difficoltà. «Occorre verificare – sottolinea Noto in attesa dei prossimi sondaggi – come la scelta filo-trumpiana della prima ora possa impattare sul consenso soprattutto al Nord, dove il bacino elettorale della Lega è costituito da piccoli imprenditori, esportatori, che temono una ricaduta delle decisioni americane sulle aziende». È l’effetto boomerang di un trumpismo ostentato in tutte le occasioni e accompagnato dalla bandiera del pacifismo, sventolata per denunciare che le spese per il riarmo toglierebbero risorse alla Sanità e alla Previdenza. Senza che però si arrivi all’estrema conseguenza, che sarebbe quella di impedire al governo di condividere con i partner Ue la scelta di avviare la Difesa europea, terreno su cui i Cinque Stelle – con i quali il pacifismo leghista è in competizione – possono muoversi più agevolmente trovandosi all’opposizione. Il no della Lega, invece, aprirebbe la crisi di governo.

Sono tutte difficoltà che tuttavia Salvini può affrontare senza il pericolo che alla destra della Lega nasca un nuovo partito in grado di indebolirla elettoralmente. Con l’iscrizione di Roberto Vannacci al partito e la prospettiva che l’ex generale possa “ripiegare” su una vicesegreteria (la quarta), il fantasma di una Lega bis sembra svanire. E non c’è neppure il pericolo che il teorico del “Mondo alla rovescia” possa prendere il posto di Salvini. Non può diventare segretario chi non è iscritto da almeno sette anni, prevede severamente lo Statuto. Amen.