Dopo la strage di musulmani in Nuova Zelanda si è discusso in modo generico di razzismo. Invece è importante chiamare le cose con il loro nome

islam
Nella giornata del 15 marzo 2019, Mehreen Faruqi, prima donna musulmana eletta al Senato nella storia dell’Australia, dichiara che «c’è del sangue sulle mani dei politici che incitano all’odio» affermando così che esiste «un legame diretto tra la loro politica dell’odio e questa violenza rivoltante e insensata a Christchurch». Purtroppo nel corso degli ultimi anni la parola ha sdoganato, anticipato e sostituito la violenza fisica, diventando essa stessa violenza.

Qualche ora prima di questa dichiarazione, il ventottenne australiano Brenton Harrison Tarrant, autodefinitosi “uomo bianco ordinario” ovvero suprematista, dopo aver letto le 74 pagine della teoria della “Grande sostituzione” etnica, ha causato la morte di 50 persone in due moschee di Christchurch in Nuova Zelanda. A dispetto della teoria complottista, le statistiche raccontano un paese che conta una popolazione di 5 milioni di persone di cui circa 50 mila sono di fede musulmana. Vale a dire solo 1 per cento dell’intera popolazione. A questo riguardo, le parole della Premier neozelandese, Jacinda Ardern, nell’ammettere che: «la Nuova Zelanda è innegabilmente razzista», ci aiutano a comprendere il contesto generale del paese e il tessuto sociale all’interno del quale ha agito il suprematista bianco di destra. Questa tragedia umana ha davvero sconvolto gran parte della comunità internazionale.

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Tuttavia, analizzando le dichiarazioni di cordoglio e di condanna espresse all’indomani della strage di Christchurch, una parola scomoda appare essere il commensale assente dal lungo elenco delle frasi intavolate nelle discussioni su questo gesto criminale. Il vocabolo che manca è islamofobia, ovvero, la discriminazione verso la religione musulmana e le persone di fede musulmana. Sarebbe interessante provare ad esplorare le ragioni di questa avversione. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle e gli attentati perpetrati negli ultimi anni in varie parti del mondo da organizzazioni terroristiche che si proclamano di fede musulmana, è abbastanza impervio provare ad avventurarsi su questo spinoso sentiero dell’islamofobia. Tuttavia, indagare le ragioni profonde di un fenomeno sociale come questo richiede una lettura disinibita della realtà in grado di emanciparsi da ogni condizionamento culturale. Bisogna quindi riuscire a resistere alla tentazione della semplificazione o della negazione, proprie dei nostri tempi. Dovremmo interrogarci sulle motivazioni per le quali si preferisce parlare del concetto di “supremazia” riferendosi all’omicida di Christchurch, ovvero Brenton Harrison Tarrant, invece di asserire la nozione di “islamofobia” per richiamare alla memoria le cinquanta vittime. In questa circostanza, ritengo che i due assiomi debbano costituire un inseparabile binomio che va coraggiosamente coniugato nella narrazione di questo attentato terroristico.

Il giorno dell’attentato, il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, rispondendo a una domanda sulla crescente minaccia «dell’ideologia della supremazia bianca», ha detto che si tratta semplicemente di «un piccolo gruppo di persone che hanno grossi problemi». Questa risposta apparentemente innocua, ma deliberatamente semplificatrice e minimizzatrice rischia di sdoganare il clima di razzismo riconducibile anche a una parte dell’elettorato di Trump

Invece è importante che la politica riacquisti il coraggio di stigmatizzare e di combattere ogni manifestazione di razzismo che minaccia la sicurezza e la sopravvivenza delle nostre comunità, ormai irrimediabilmente cosmopolite. Sarebbe poco lungimirante sacrificare la lotta per questi nobili ideali sull’altare di un effimero consenso elettorale illudendo allo stesso tempo le popolazioni impoverite. Altrimenti, se la politica dovesse abdicare a questo doveroso compito, le nostre società rischierebbero di generare un esercito inarrestabile di bellicosi assassini.

La lotta al razzismo, in tutte le sue articolazioni deve essere la priorità di ogni governo. Questo agire deve includere un uso responsabile della parola come veicolo di principi che valorizzano le diversità. Infatti, la dialettica politica deve tornare a riconciliarsi con la dimensione responsabile del linguaggio e con il valore pedagogico delle parole. Per questo i governanti e gli amministratori dovrebbero avere la consapevolezza dell’impatto delle loro parole nella società. A tal proposito il letterato britannico Samuel Johnson scrisse che «le parole sono figlie della terra e le cose sono figlie del cielo».

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