Due mostre e una rassegna video al centro del festival musicale di Berchidda in Sardegna diretto da Paolo Fresu

Provate ad immaginare un paese arrampicato sulle pendici del monte Limbara al centro della Sardegna, ad appena venti chilometri dalla Costa Smeralda ma lontano anni luce dal glamour un po’ fracassone che la abita. Un paese dove ogni anno, e proprio d’estate, la gente del luogo, giovani e non solo, si mischia con gente che arriva da Oltreatlantico, dall’Europa del Nord, dall’Africa o magari solo dal Continente. Il sardo, che da queste parti parlano stretto, quasi scompare tra inflessioni inglesi, tedesche e di chissà dove. Un miracolo, una bella eccentricità sotto il segno del jazz. Perché a Berchidda (questo il nome del paese) 47 anni fa è nato Paolo Fresu, oggi musicista apprezzato internazionalmente, ma che nel 1987, quando si mette in testa di suonare proprio tra quelle quattro case del suo paese, era poco conosciuto. La tromba gliel’aveva prestata il fratello Antonello che la suonava nella banda del paese, e poi, e poi è venuto il resto. Paolo è diventato Paolo Fresu, a Berchidda è nato un festival che si chiama Time in Jazz, che molto deve alla passione di Antonello Fresu, nel frattempo divenuto psichiatra a Sassari ma che tutte le estati torna in paese per inventarsi il festival. Al quale dieci anni fa si è aggiunto anche un consistente programma di arte contemporanea ideato da Giannella Demuro, che da tempo lavora in Sardegna per fare di quest’isola non solo il bellissimo approdo turistico che è.

E tutti quanti, tra i cento ragazzi volontari che arrivano a Berchidda da tutta Italia, musicisti come (quest’anno) Uri Caine, Steve Coleman, Ornella Vanoni, Paola Turci, Larissa Groeneveld, Giovanni Collima, Mark Feldman e naturalmente Paolo Fresu più tanti altri, che suonano a Berchidda, in chiese, piazze e stazioni di paesi vicini, sulle navi che portano in Sardegna, all’aeroporto di Olbia, danno vita a un incontro molto caldo (non solo per ragioni climatiche: le date sono dal 10 al 16 agosto), ma soprattutto da un punto di vista umano e, diciamolo, una volta tanto senza timore di spararla grossa, anche culturale.

Sì, insomma, Time in Jazz è un appuntamento al quale vale la pena di andare, nonostante la temperatura bollente, le sirene del mare vicino, lasciando sotto l’ombrellone la pigrizia estiva. Epicentro del festival è la piazza del Popolo dove si svolgono i concerti che dalla sera si allungano alla notte. "E siccome si tratta di un’architettura pensata proprio per l’incontro delle persone, questo tema, l’architettura, non poteva mancare nella nostra rassegna", spiega Giannella Demuro. Così Architekturae è il filo che lega le due mostre di quest’anno più una rassegna video. Gli artisti, alcuni dei quali realizzano le scenografie dei concerti, sono scelti per la familiarità con il tema che ognuno elabora a modo suo. Ecco che in Architecture play curata da Laura Barreca, gli Elastic Group avvicinano il linguaggio del corpo a quello delle forme dell’abitare, mappando l’uno e l’altro in un originale intreccio di immagini video. Andrea Aquilanti ricostruisce un ambiente scenico che fa poi abitare dalle persone che lo attraversano, complici due telecamere e un gioco di ombre. Lorenza Lucchi Basili ingrandisce i particolari di un interno del museo Ebraico di Berlino fino a renderli architetture a sua volta, Piero Ruffo, con la maestria del suo tratto, scompone e ricompone architetture reali e immaginarie, Marco Giovanni le ricrea con la graffite, Sergia Avveduti ne disvela il paradosso, ingigantendo il meccanismo di un orologio fino a trasformarlo in un assurdo tavolino, Flavio Faveli invece i mobili li usa e li torce per realizzare architetture impossibili, Nico Vascellari mette in scena l’architettura precaria della sua famiglia, Marina Vergini si fa regista per documentare con occhio disincantato la vita residuale dell’ex acciaierie di Bagnoli.

Nella mostra “Lo spazio debole”, curata da Giannella Demuro e Ivo Serafino Fenu, lo spazio è indagato nel suo aspetto meno rassicurante, come luogo di conflitto. Tra altri, il russo Peter Belyi ricorre al Costruttivismo, che tanta parte ha avuto nella cultura del suo Paese, mettendo una sull’altra migliaia di diapositive fino a realizzare precari casermoni in perfetto stile sovietico, Pietro Sedda ruba immagini proibite da case che ospitano sesso clandestino, Dafne Boggeri usa lo spazio per farvi incontrare pulsioni visive e sonore, Stefano Cagol si lascia catturare dallo spazio vivo e trasognato della notte e Marcello Maloberti da quello ipertrofico della Vucciria di Palermo.

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