È uno dei più grandi autori afroamericani contemporanei. Con la sua opera, ha riscritto dal basso l’identità statunitense

Negli ideali Stati Uniti di Donald Trump, che smantellano la memoria e il contributo storico e sociale delle minoranze, un ordine esecutivo dopo l’altro, a vincere il premio Pulitzer 2025 per la narrativa è un romanzo dalla portata simbolica enorme. Selezionato nei mesi scorsi anche nella cinquina finalista del Booker Prize, “James” di Percival Everett (La Nave di Teseo) è un “retelling” letterario che riscrive dal basso l’identità statunitense, ribaltando la prospettiva dell’opera che già centoquaranta anni fa aveva rivoluzionato il romanzo americano. Era infatti il 1884 quando Mark Twain scelse di dare voce al piccolo e ribelle amico di Tom Sawyer, che da personaggio secondario diventava protagonista della sua stessa storia, la fuga lungo il fiume Mississippi insieme allo schiavo Jim. Nacque così “Le avventure di Huckleberry Finn”. Ironiche, divertenti, a tratti teneramente infantili, ma dall’enorme portata educativa per la giovane generazione successiva alla Guerra di Secessione, le rocambolesche vicende di Huck e Jim mostrarono fin da subito che un’America diversa era possibile. Quella in cui bianchi e neri potevano proteggersi a vicenda e chiamarsi l’un l’altro amici. Eppure, anche in un romanzo che da circa un secolo e mezzo è considerato un pilastro del discorso sull’identità e l’antirazzismo negli Stati Uniti, lo schiavo Jim non ha molto da dire, se non attraverso le parole di Huck. È qui che, centoquaranta anni dopo, interviene allora Everett, uno dei più grandi autori afroamericani contemporanei, che a Mark Twain deve, parole sue, almeno l’amore per l’onnipresente ironia dei suoi scritti.

 

Il suo “James” ribalta la prospettiva del classico del XIX secolo e restituisce a Jim il nome proprio, le parole e lo spessore narrativo su cui fino a oggi nessuno si è interrogato. Si inserisce così in una lunga tradizione dei riadattamenti, riscritture e ribaltamenti dei punti di vista di celebri opere letterarie. Fra gli esempi più noti degli ultimi anni si ricordano soprattutto i romanzi di Madeline Miller, “La canzone di Achille” o “Circe”. Ciò che fa Everett, tuttavia, si allinea con un più ampio movimento politico e socio-culturale, una progressiva riappropriazione della storia e dell’immagine nera nel mondo, e negli Stati Uniti nello specifico, che è più visibile al cinema e nella serialità televisiva, ma è presente ugualmente in letteratura.

 

Come già nel suo precedente “Cancellazione” (La nave di Teseo), adattato lo scorso anno per il grande schermo da Cord Jefferson, con il titolo “American Fiction”, Percival Everett fa del distacco umoristico la sua arma principale. È così che il silenzioso schiavo Jim si trasforma in un sarcastico intellettuale autodidatta, che intrufolandosi nella biblioteca del padrone, legge Voltaire e John Locke, impara a scrivere e, soprattutto, intuisce di dover nascondere queste e altre qualità agli occhi dei bianchi

 

Nel linguaggio di “James”, che poi è quello di Everett, la parola è potere. Uno schiavo armato fa infatti meno paura di uno schiavo che pensa e si esprime come un filosofo. Everett riscrive, capitolo dopo capitolo, l’intera storia di Huckleberry Finn, questa volta tuttavia è Jim ad averne il controllo, fino a cambiarne il finale. È Jim che finge di ascoltare i poteri magici della palla di peli di bue, solo per giocare con le superstizioni dei padroni, e che distorce volontariamente la sintassi di ogni frase, per nascondere il suo eloquio perfetto. È Jim che conquista la sua stessa libertà, anche se per farlo ha bisogno di cento pagine in più rispetto al racconto originale. O forse è proprio per questo: parola dopo parola, si riprende il suo spazio. 
 

Nella cosiddetta letteratura decoloniale esiste un’espressione specifica per indicare questo passaggio di potere attraverso la parola scritta, il writing back. Nasce da un articolo in cui Salman Rushdie cita uno degli episodi di Guerre Stellari, “The Empire Strikes Back”, per indicare una letteratura di ritorno, di risposta e contrapposizione che usa o stravolge la lingua colonizzatrice. La stessa espressione diventa poi il titolo di un importante manuale di Bill Ashcroft, Gareth Griffiths e Helen Tiffin che ne spiega il senso più ampio e ne sistematizza l’uso. Quando si parla di esperienza afroamericana, tuttavia, non è la colonizzazione bensì la schiavitù la questione culturale che per prima deve essere affrontata, perché alla base dell’attuale sistema economico e sociale degli Stati Uniti. È dall’analisi della schiavitù - o nella contrapposizione a essa - che si sviluppa quindi la più massiccia riscrittura, letteraria o cinematografica, della storia statunitense.

 

Celebre è l’ucronia della “Ferrovia Sotterranea", valsa un Premio Pulitzer a Colson Whitehead e diventata poi una serie televisiva d’autore, diretta da Barry Jenkins. In questa storia alternativa, Whitehead rende concreta la metafora del titolo, trasformando le fughe degli schiavi da Sud a Nord in una vera organizzazione segreta, abolizionista e rivoluzionaria. Ancora più radicale è l’intervento della giornalista Nikole Hannah-Jones che nell’agosto 2019, a 400 anni esatti dall’arrivo della prima nave schiavista sulle coste americane, pubblica una raccolta di saggi sul New York Times destinata a scuotere l’opinione pubblica e a provocare la dura reazione dell’allora presidente Donald Trump. Il “1619 Project”, diventato nel frattempo anche una docu-serie disponibile su Disney+, riscrive infatti l’intera storia statunitense partendo dalla schiavitù come il trauma, mai riconciliato, su cui si fondano le leggi e le istituzioni odierne “per impedire tutt’oggi agli afroamericani il raggiungimento dello status di piena cittadinanza”. 
 

La letteratura, il cinema e il giornalismo, in questi casi, arrivano dove il sistema educativo fallisce, ovvero nell’apertura della storia a più punti di vista, quelli “marginali”, o meglio marginalizzati, tagliati fuori dai libri di scuola. Come accade anche in Italia, dove è solo la regista Daphne Di Cinto a raccontare le origini africane di Alessandro de’ Medici nel cortometraggio “Il moro” (2022).

È così che riaffiorano quelle narrazioni che si dimenticano «come si fa con un brutto sogno», citando “Amatissima“ di Toni Morrison, altro eccellente esempio di riscrittura, di riappropriazione di una prospettiva. Morrison scopre infatti la vicenda di una schiava che uccide la figlia da un ritaglio di giornale. Nel romanzo che le assicura il Nobel nel 1993, decide così di reinterpretare, senza condannare, il senso di un gesto estremo e compiuto per ribellione, perché alla schiavitù è preferibile persino la morte. 

In forme diverse, minori o passate inosservate, esempi simili ricorrono in ogni genere di narrazione. Dalla rinascita del black western di “The Harder They Fall” alla riscrittura horror della “Capanna dello zio Tom” nella serie tv “Lovecraft Country” (2020), fino alla chiave gioiosa e musicale che il regista Blitz Bazawule (2023) dà a “Il colore viola” di Alice Walker. Impressionante, tuttavia, è la lucidità e l’ironia con cui è, di nuovo, soprattutto il “James” di Percival Everett a collocarsi fra le testimonianze migliori di una nuova autoaffermazione afroamericana: «Con la mia matita ho scritto me stesso, portandomi all’esistenza. Ho scritto me stesso, fino a qui».

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