Hanno una consistenza diversa. Il primo è più denso e si lascia invecchiare. Il secondo era un elisir per i romani. Mille gli usi in cucina

Secondo quanto decretato da Columella, che ne scrisse già nel I secolo d.C., le vie del vincotto sono almeno due: «defrutum», particolarmente apprezzato già nella cucina di Apicio, se ridotto di un terzo, oppure «sapa» se ridotto della metà. Dagli scritti di Columella, appunto, apprendiamo che già presso i romani era usanza ravvivare le carni col mosto cotto. E così veniva usato anche in preparazioni dolci, come nelle torte, dove compariva come edulcorante ante litteram, mentre si faceva energizzante se allungato con acqua e la sua versione fermentata e cruda veniva apprezzata come tonico appetitoso e inebriante.

 

Oggi sono altri i parametri per stabilire se si può parlare di mosto cotto o di vino cotto, in base alla sua consistenza. Infatti, il mosto cotto è più denso e si lascia invecchiare. Il vino cotto, invece, è stato dichiarato dalla Pat (Prodotti agroalimentari tradizionali italiani) Patrimonio Enologico della Regione Abruzzo, in primis nella zona teramana.

 

In tempi lontanissimi il vino cotto era una sorta di biglietto da visita beneaugurante che il contadino offriva agli ospiti in segno di benevolenza nei momenti di convivialità durante le feste e le sagre. Già ai tempi di Plinio il Vecchio era usanza preparare questa bevanda così particolare, quasi un elisir. Il mosto cotto nasce ai tempi in cui i braccianti andavano a prestare i loro servigi ai contadini durante la vendemmia riportando a casa qualche cesta d’uva per ricavarne una tipologia di vino che sfidasse il tempo. Così fecero di necessità virtù e quel mosto che raccoglievano dopo la spremitura delle uve, e destinato a inacidire, lo inserirono, prima che il mosto fermentasse e si tramutasse in alcol, in un calderone cuocendolo fino a diventare una sorta di sciroppo denso. Infatti, ogni anno rabboccavano i contenitori del mosto cotto con quello nuovo conservandone sempre una buona quantità.

 

Così di padre in figlio le botti rabboccate sono dopo secoli ancora in uso in alcune famiglie abruzzesi. Oggi come allora per migliorare il gusto del mosto è necessario — come da Disciplinare — aggiungere, per dare un particolare aroma, una mela cotogna per ogni quintale di mosto, migliorandone la morbidezza e la fragranza.

Paese che vai, mosto che trovi e tra i più celebri c’è di certo la Sapa già descritta dall’Artusi, che la racconta come quella sostanza che può servire in cucina a diversi usi poiché ha un gusto speciale.

 

Ebbene la Sapa, come la chiamano nel Cesenate e nel Riminese, è un mosto d’uva (spesso di Trebbiano) sobbollito per ore in un paiolo di rame unitamente a una mezza dozzina di noci col guscio che, rivoltandosi, aiutano il mosto a non attaccarsi al fondo del calderone. Il suo utilizzo in cucina è vario, tanto che può essere usato come accompagnamento per formaggi o freschi o molto stagionati oppure come rinvigorente di yogurt e gelati (fiordilatte o crema). In cucina poi diventa eccelso con le castagne, o come farcia di paste sfoglie o paste frolle. La Sapa è diffusa in tutta l’Italia centrale, ma anche nelle isole, dove la sua incursione nelle ricette ha determinato una filiazione di preparazioni da manuale.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso