Reti colabrodo. Pozzi non censiti, riuso al lumicino, controlli inesistenti e tariffe ballerine. Rapporto su vent’anni di inerzia sul fronte dell’emergenza

Lo Stato si è dimenticato dell’acqua e lo ha fatto negli ultimi venti anni. Anche durate il governo Draghi e quando ormai era evidente che la crisi climatica avrebbe coinvolto pesantemente il Paese, come denunciato da moltissimi esperti e scienziati. Basta un numero per spiegare bene perché lo Stato si è dimenticato dell’acqua: se si scorrono i bilanci degli ultimi venti anni alla voce acqua e conduzioni idriche la cifra stanziata è pari a zero. Sì, zero. Adesso arrivano 4,3 miliardi dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per tutto il comparto, dalle reti idriche alla depurazione passando per la manutenzione degli invasi (gli ultimi realizzati sessant’anni fa).

Sapete quanto servirebbe per ammodernare le reti, secondo i piani presentati dagli Ambiti ottimali solo per le conduzioni per uso civile che equivalgono al 20 per cento dell’utilizzo di acqua in Italia? Sessanta miliardi di euro. Lo Stato ne ha stanziati quindici volte di meno e di questo passo, secondo Utilitalia, ci vorranno 150 anni per mettere in sicurezza l’Italia da una siccità che nel frattempo avanza a grandi passi. Un paradosso che dimostra come chi ha governato, partiti di tutti gli schieramenti, sull’acqua non abbia fatto nulla. Ma proprio nulla.

Così il Paese si presenta impreparato nel pieno di una grande siccità che nessuno sa quanto durerà e se è solo l’inizio di una nuova era. Secondo l’Istituto intergovernativo sul cambiamento climatico, nell’ultimo report appena consegnato anche a Palazzo Chigi, alla voce «rischi di scarsità di risorse idriche», si legge: «Nell’Europa meridionale il rischio è già elevato per un livello di riscaldamento globale di 1,5 gradi e diventa molto alto nel caso di un innalzamento di 3 gradi. In queste regioni, la domanda di risorse idriche eccede già oggi le disponibilità. Questo divario sta aumentando a causa dei cambiamenti climatici e degli sviluppi socio-economici. Nel caso di un innalzamento di temperatura di 3 gradi il rischio di scarsità di risorse idriche diventa alto anche nell’Europa centro-occidentale. Nel caso di un livello di riscaldamento elevato, è richiesto un ampio portafoglio di interventi che tuttavia potrebbe non essere sufficiente a evitare la mancanza di adeguate risorse idriche nell’Europa meridionale».

L'acquedotto di Laterza, Taranto

I numeri del disastro
A questo scenario il Paese si presenta nel caos gestionale, con intere province che non hanno nemmeno un ente gestore e, come vedremo, restano fuori perfino dal Pnrr, ma anche con le reti colabrodo: per uso civile con perdite intorno al 40 per cento e per uso agricolo e industriale con perdite indefinite e nemmeno ben quantificate vista l’assenza totale di controlli. Basti pensare che dopo l’abolizione delle Province in molte Regioni non c’è più nemmeno l’ufficio che dava le autorizzazioni all’utilizzo dei pozzi e li censiva. L’Italia quindi è il Paese in Europa con la più alta dispersione idrica per uso civile, agricolo e industriale e dopo essere stata condannata a pagare 60 milioni di euro all’anno (165 mila euro al giorno) perché non depura l’acqua di fogna che va nei fiumi e nel tanto decantato mare del Belpaese, a breve ne riceverà un’altra di condanna perché non riutilizza l’acqua da depurazione e da altri usi agricoli e industriali. «Questo è il risultato di vent’anni di abbandono assoluto del settore e di una sorta di grande privatizzazione con la creazione degli Ambiti ottimali e le famose tariffe che dovrebbero coprire tutto, anche la manutenzione delle reti», dice Erasmo D’Angelis, segretario generale dell’Autorità di bacino centro Italia ed ex responsabile della Struttura di missione creata dal governo Renzi e poi smantellata dal governo gialloverde di Giuseppe Conte e Matteo Salvini.

Dopo l’introduzione della legge Galli, che ha portato alla creazione degli Ambiti ottimali (dovevano essere 92 e affidare il servizio ai privati, dopo trent’anni ne sono attivi molti di meno), tutta la spesa per investimenti nelle grandi infrastrutture è stata demandata alla tariffa: cioè, nella bolletta dell’acqua che cittadini e aziende pagano dovrebbe essere già conteggiata la parte per investimenti. Ma, innanzitutto, l’Italia è l’unico Paese in Europa che non ha una tariffa media di riferimento, ma fin dall’inizio sono state create 92 diverse tariffe.

Solo per fare degli esempi: perché la spesa per abitante per l’acqua è pari a 34 euro all’anno in Italia, in Sicilia scende a 8 euro e la media Ue è di 120 euro? E, ancora, perché se in media una famiglia europea paga 800 euro (in Olanda 900, in Inghilterra 800, in Germania 700), in Italia si pagano 550 euro? La risposta è semplice: perché dell’acqua al nostro Paese non è mai interessato nulla. Il risultato è il seguente: su 550 mila chilometri di tubazioni idriche, il 60 per cento risale a 30 anni fa, il 25 per cento a 70 anni fa: «Ci sarebbero immediatamente da sostituire 220 mila chilometri di reti e dovremmo crearne 50 mila di nuove subito per avvicinarci un minimo alla media di dispersione europea che è pari al 15 per cento», continua D’Angelis. Non va meglio sul fronte della capacità di immagazzinare l’acqua: nel 1970 l’Italia riusciva a conservare il 14 per cento dell’acqua da pioggia, oggi ne raccoglie appena l’11 per cento perché non si realizzano più dighe e invasi e quelli già costruiti prima degli anni Settanta ormai sono vecchi. I consorzi e i vari enti gestori, Regioni comprese, hanno già pronti progetti per invasi per una spesa di 223 milioni di euro: ma lo Stato in cassa non ha mai messo un euro su questo settore.

 

Consumi fuori controllo
Altro tema chiave, proprio nel bel mezzo della grande siccità del 2022, è quello dei consumi. In Italia non c’è alcun controllo né sull’utilizzo per abitazioni né su quello per attività produttive. Per uso civile in Italia si consumano 245 litri di acqua pro-capite, 100 litri in più rispetto alla media dell’Unione europea. Ma questo dato riguarda soltanto l’uso civile, che complessivamente vale appena il 20 per cento del prelievo di acqua da fiumi e invasi. Il restante 80 per cento è senza alcun controllo: il settore agricolo, che da solo pesa per il 53 per cento dei prelievi, non ha, come detto, nemmeno un chiaro censimento dei pozzi e dei punti di approvvigionamento: il risultato, con dati presi a spanne, è che su circa 16 milioni di metri cubi di acqua prelevata per uso agricolo, ne vengono poi effettivamente impiegati nei campi 12 milioni. Non va meglio sul fronte industriale, che vale il 21 per cento dei prelievi. Qui «non esistono nemmeno norme per obbligare le aziende ad impiantare sistemi di recupero delle acque sia da falda sia da pioggia, e ricordo a tutti i nostri governanti che l’Italia ha le piogge più abbondanti d’Europa, anche se può sorprendere, ma è così», dice D’Angelis. Infine l’Italia getta in mare 9 miliardi di metri cubi di acqua da depurazione, un’altra follia in tempi di siccità: in diverse realtà europee questa acqua, filtrata, viene riutilizzata perfino per uso civile.

L’occasione perduta del Pnrr
I governi degli ultimi venti anni non hanno investito un solo euro nel settore idrico, il presidente del Consiglio Mario Draghi proprio nelle comunicazioni sulle sue dimissioni in Parlamento ha ribadito la necessità di invertire la rotta e sottolineato che nel Pnrr sono stati previsti 4,3 miliardi di euro per il comparto: nel dettaglio, 2 miliardi per infrastrutture, 900 milioni per riduzione perdite nelle reti, 880 milioni per migliorare l’utilizzo in agricoltura e 600 milioni per fognature e depurazione. Cifre assolutamente insufficienti, non solo all’interno del Pnrr (valgono meno del 2 per cento dell’intero piano, a dimostrazione dell’attenzione sul settore), ma anche in termini assoluti. Sono una goccia nel mare necessario a far avvicinare l’Italia al resto dell’Unione e ad affrontare gli anni futuri che si annunciano tremendi. Ma c’è di più, ed è qui la beffa. Neanche a dirlo è al Sud che la situazione comunque è peggiore: ad eccezione della Puglia, tra Sicilia, Calabria e Campania si arriva anche a punte del 60 per cento di dispersione dell’acqua per uso civile, mentre sul fronte agricolo c’è il caos assoluto. E proprio i Comuni e gli enti locali del Mezzogiorno non riescono nemmeno a partecipare ai bandi del Pnrr. Il motivo? Non solo perché non hanno progetti adeguati (la Sicilia ha perso così il treno da 350 milioni di euro del Pnrr per i suoi consorzi di bonifica), ma molte province non hanno nemmeno l’Ato idrico affidato a norma di legge e costituito. «Il paradosso è che il mio Comune, Erice, è in infrazione europea per la mancata depurazione, ma non possiamo partecipare al bando per i fondi della depurazione del Pnrr perché in provincia di Trapani (e anche in quelle di Siracusa e Messina, ndr) non esiste l’Ato idrico. Ma ci rendiamo conto?», dice con un tono quasi disperato Orazio Amenta, responsabile progetti Ue di Erice e anche della Provincia di Palermo. Scene da un Paese che si è dimenticato completamente di un bene prezioso, forse il più prezioso. 

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