In Italia esiste un grumo di potere fortissimo: i super dirigenti delle aziende a partecipazione statale. Che non solo hanno stipendi da favola, ma grazie ai capitali che muovono spesso tengono sotto ricatto la politica. Qualcuno se ne vuole occupare?

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È passata giusto una ventina d'anni da quando, con un felice colpo di mano legislativo, Giuliano Amato intonò il "requiem" per le Partecipazioni Statali. La sua fu una mossa al tempo stesso semplice e però rivoluzionaria. Fu sufficiente, infatti, imporre alle imprese pubbliche di trasformarsi in società per azioni e un intero sistema di potere crollò su se stesso per impossibilità di sopravvivere secondo le normali regole del codice civile.

Che speranze e che cori di tripudio si sollevarono allora nel paese nella convinzione che la ramazza di Amato avrebbe così spazzato via una volta per tutte quella perniciosa genìa di tracotanti boiardi di Stato che dai vertici delle loro aziende si erano ormai trasformati da controllati in controllori di quello stesso potere politico da cui derivavano la propria investitura. Una metamorfosi il più delle volte compiuta a suon di quattrini pubblici di volta in volta elargiti o negati a questo o quel partito ovvero a questa o quella fazione al fine neanche troppo nascosto di determinare il corso degli eventi politici al punto da poter condizionare nascita, vita e morte dei governi nazionali. Una degenerazione istituzionale che raggiunse forse l'abisso più profondo con le trame di potere tessute dall'autentico principe dei boiardi: Eugenio Cefis. Personaggio che, dapprima dal vertice dell'Eni e poi da quello della Montedison, poteva permettersi di esercitare il ruolo di "king's maker" nella scelta di segretari di partito, ministri, presidenti del Consiglio e perfino della Repubblica.

Da quei lontani anni oscuri ne è passata d'acqua sotto i ponti. La riforma Amato ha davvero cambiato la mappa della presenza statale in economia: non c'è più l'Iri con le sue tre grandi banche d'interesse nazionale, il gigante Telecom è uscito dalla mano pubblica, di enti rovinosi come Efim o Egam non v'è più traccia. Cosicché molti boiardi o boiardini non hanno più le numerose poltrone di un tempo su cui sedersi, ma non c'è spazio per illusioni: la loro specie è tutt'altro che estinta. Magari ha addolcito qualche eccesso di prevaricazione, si è adattata darwinianamente ai mutamenti dell'ambiente politico, ha scoperto nuove terre più defilate di conquista. In ogni caso quel che conta - l'osso del potere autoreferenziale - non l'ha mollato sempre sfruttando con abilità i peggiori istinti di una classe politica per lo più insensibile alla distinzione fra interesse di parte e senso dello Stato.

Di questo neoboiardismo trionfante costituiscono un primo e preclaro esempio le recenti vicende di Finmeccanica, dentro le quali è facile ritrovare un po' tutti i vizi del passato: dalla sponsorizzazione partitica degli incarichi fino all'impotenza della politica nel gestire la crisi dell'azienda a causa dei ricatti sotterranei minacciati dai manager in disgrazia. Un altro, ancorché meglio dissimulato, caso di vigorosa sopravvivenza della classe boiarda è oggi quello offerto dalla variopinta galassia delle Fondazioni cosiddette ex-bancarie i cui esponenti hanno saputo strappare a parlamento e governi una signoria così autoreferenziale da trasformarsi in una casta inattaccabile dall'esterno addirittura sotto l'egida di una legge dello Stato.

Peggio i vecchi o i nuovi boiardi? La migliore risposta sta in un vecchio aforisma francese: "Plus ça change et plus c'est la même chose".

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