Venticinque anni dopo quel 9 novembre, il sogno ?di un’Europa davvero unita è ancora lontano. Frenato dalla sfiducia reciproca. Da vecchi pregiudizi. E da grossolani errori politici
I l Muro di Berlino non crollò il 9 novembre 1989. Solo, ne cambiò la percezione generale. Da impenetrabile barriera geopolitica che separava la parte Ovest dall’Est dell’ex capitale del Reich - il “mondo libero” dall’impero sovietico - a mera barriera architettonica, simbolo dell’emancipazione del popolo della Repubblica Democratica Tedesca (Rdt) da uno dei più occhiuti regimi polizieschi dell’età contemporanea. Fu solo nei mesi successivi che quella barriera, ormai ridotta a monumento di una frontiera che divideva in due una metropoli e un popolo, venne pezzo a pezzo sbriciolata. Oggi ne restano solo pochi metri, conservati ed esposti come vestigia di un passato doloroso.
D eterminante fu allora il cambio di percezione dei berlinesi dell’Est. Accadde la sera del 9 novembre. A testimonianza del caos in cui stava ormai affondando la Rdt sotto i colpi del gorbaciovismo e della insofferenza di buona parte della sua popolazione per le rigidità del potere, un alto dirigente del partito-Stato, Günther Schabowski, rispondendo alla domanda di un giornalista italiano si lasciò sfuggire che le «nuove regole» per il passaggio frontiera con l’Ovest erano attive «da subito». Dopo pochi minuti, masse di berlinesi si accalcavano ai passaggi di confine. I guardiani del Muro, i truci Vopos, privi di ordini, decisero che ormai non valeva la pena difendere uno Stato che si stava suicidando e si fecero travolgere dalla pacifica, inebriata folla. Fu una notte di follie e di entusiasmo, fra canti, balli, lacrime e abbracci. Finiva una dittatura, e con essa si apriva la fase finale del percorso che sarebbe sfociato, undici mesi dopo (3 ottobre 1990), nella riunificazione della Germania, e dopo altri quattordici mesi (26 dicembre 1991) nella morte dell’Urss. Pareva che finalmente l’Europa fosse unita nella pace, nella libertà e nella democrazia. Pareva.
Che cosa resta oggi di quell’aria di festa? Che ne è del progetto di unificazione europea? Scrivendo nel ventennale della caduta del Muro, Carlo Azeglio Ciampi stabilì che quell’evento aveva segnato «la fine dell’ideale europeista unitario». Anziché costruire lo Stato federale europeo, si scelse di annacquare la costruzione comunitaria, allargandola oltre ogni ragionevole limite. Dai dodici Paesi di allora siamo ormai a ventotto, e probabilmente non è finita. Perché si optò per l’annacquamento? E perché anziché costruire uno Stato Europa con la sua moneta - e quindi il suo governo, il suo parlamento, le sue Forze armate, la sua magistratura - si battezzò una moneta “europea” (meglio, di alcuni Stati dell’Unione), affermando che sulla divisa comune - contro ogni esperienza storica - si sarebbe un bel giorno edificata l’Europa politica?
La risposta è che non ci fidavamo gli uni degli altri. E con il passare del tempo, avendo in mano una moneta che separa chi ce l’ha da chi non la vuole o può avere, ma ancor di più i consociati nell’euro fra loro, ci fidiamo ancora di meno. Anziché sfociare nell’unione politica, la traiettoria della “moneta unica” (chissà perché continuiamo a chiamarla così, visto che nell’Unione europea continuano a circolare altre divise, tra cui la sterlina britannica, la corona svedese e lo zloty polacco) sta lasciando dietro di sé una scia di timori, recriminazioni, rigurgiti ipernazionalisti ai limiti del razzismo. La moneta è fiducia. Senza di che resta un coriandolo di carta colorata.
Una crisi di fiducia è quindi il peggiore scenario possibile per noi cittadini dell’Eurozona. Siamo riusciti a salvare l’euro, finora. Ma per farlo abbiamo sacrificato l’Europa. [[ge:rep-locali:espresso:285137926]] Da ideale che muoveva gli animi ed eccitava gli spiriti, a paradossale “uomo nero”, capro espiatorio di ogni problema. Un’ondata di eurofobia, a manipolare la quale si esercitano imprenditori politici di pochi scrupoli, convinti di trarne vantaggio per sé e per il proprio partito.
Tornare ai giorni e ai mesi del dopo-Muro ci aiuta a capire perché siamo ridotti così. Al di là delle celebrazioni e delle frasi di circostanza, la gran parte delle classi dirigenti europee vedeva nella prospettiva di una Germania unita una minaccia assai più che una risorsa. Questo era particolarmente vero per la Francia. Da de Gaulle in poi, Parigi aveva promosso l’integrazione europea per meglio controllare la Germania occidentale. Da tenere rigorosamente separata da quella orientale. Quando la frontiera fra le due Germanie evaporò, il presidente francese François Mitterrand ne rimase sconvolto, e con lui buona parte delle élite della Grande Nazione. La sua reazione privata alle immagini trasmesse da Berlino, nella notte del 9 novembre, fu secca: «Questa gente gioca con la guerra mondiale».
Mitterrand era ossessionato dall’idea che il 1989 fosse un altro 1913. Sentiva avvicinarsi un nuovo conflitto, paragonabile alla Grande Guerra, ma nel mondo delle armi atomiche. E immaginava di ricostruire contro la Germania una triplice intesa anglo-franco-russa.
Mitterrand contava sulla germanofobia britannica, specie su quella, particolarmente virulenta, della sua omologa d’Oltre Manica, Margaret Thatcher. Conversando con la Lady di Ferro, abbozzò un implicito parallelo Kohl-Hitler: «Noi ci troviamo nella stessa situazione dei leader inglesi e francesi d’anteguerra, che non seppero reagire. La situazione di Monaco non si deve ripetere!».
Se possibile, la germanofobia britannica in quel 1989-90 secerneva umori e politiche ancora più radicali. Londra temeva che la Germania riunita sarebbe diventata in Europa il partner privilegiato degli Stati Uniti. Le memorie di Margaret Thatcher trasudano un misto di odio e paura verso la maggiore nazione continentale: «Per sua stessa natura, la Germania rappresenta una forza destabilizzante, non stabilizzante, in Europa». Fatto genetico, insomma.
Quanto radicati fossero i cliché antitedeschi a Westminster e a Whitehall, ma anche a Oxford e Cambridge, è testimoniato da una riunione riservata di decisori politici e augusti accademici, convocata dal primo ministro britannico nella sua residenza di campagna a Chequers nel marzo 1990. Per discutere intorno alle profonde domande preparate dal consigliere diplomatico di Thatcher, Charles Powell - “Chi sono i tedeschi?”, “I tedeschi sono cambiati?”, “Una Germania unificata aspirerà a dominare l’Europa dell’Est?” eccetera - risposero alla convocazione i pesi massimi della germanistica angloamericana: da Lord Dacre (Hugh Trevor-Roper) a Norman Stone, dal giovane Timothy Garton Ash agli eminenti specialisti statunitensi Gordon Craig e Fritz Stern.
I consiglieri della principessa si lasciarono andare. Secondo il verbale di quel consesso segreto, i presenti snocciolarono un elenco degli attributi negativi «che costituiscono un aspetto immutabile del carattere tedesco: in ordine alfabetico, aggressività, angst, brutalità, complesso di inferiorità, egotismo, tracotanza, sentimentalismo». Nel luglio 1990, poi, il ministro del Commercio e dell’Industria, Nicholas Ridley, si spingeva a condannare pubblicamente il progetto di unione monetaria che stava allora prendendo forma, in termini talmente crudi da costringere la signora Thatcher a dimetterlo: «Non è altro che un trucco tedesco per mettere le mani sull’Europa. Noi dobbiamo impedirlo. È assolutamente intollerabile essere devastati dai tedeschi in condizioni così sfavorevoli, e i francesi si comportano come i cagnolini dei tedeschi. Tanto varrebbe lasciare la nostra sovranità direttamente a Adolf Hitler».Tanto per essere chiari, la copertina dello “Spectator” che dava voce a Ridley esibiva una caricatura di Kohl con baffi neri e ciocca di capelli à la Hitler. Esattamente come oggi in alcune piazze della periferia dell’Eurozona Angela Merkel viene associata alla svastica.
Quanto all’Italia, Andreotti aveva già detto quel che pensava dell’ipotesi di riunificare lo spazio tedesco. Parlando nel settembre 1984 a un Festival dell’Unità, aveva ripetuto la frase di François Mauriac: «Amo talmente la Germania che preferisco ve ne siano sempre due». In Olanda e in Spagna, in Belgio e in Portogallo, tracce meno visibili ma profonde di germanofobia oscuravano la percezione festosa del dopo-Muro.
La scelta di allargare l’Unione europea, invece di unire l’Europa o parte di essa in una federazione o confederazione (come propose per un momento lo stesso Mitterrand), e di rischiare l’integrazione valutaria in assenza non solo delle condizioni economiche (area monetaria ottimale) ma soprattutto delle istituzioni politiche che di norma regolano la vita delle divise, discende direttamente dalla paura della Germania.
Si può discutere sulla pregnanza della germanofobia, anche se la storia si è finora incaricata di smentirne le previsioni. Pare incontrovertibile, però, che l’idea di costruire l’Europa contro il suo Stato economicamente e demograficamente più importante, collocato nel cuore del continente, fosse e resti piuttosto peregrina. Così come poteva forse essere previsto che la Germania, costretta a pagare la riunificazione con la cessione del marco e della Bundesbank in quanto rispettivamente moneta e banca centrale europea di fatto (all’epoca), non avrebbe accettato cotanto sacrificio senza reagire. A cominciare dai “criteri di convergenza” fissati a Maastricht e dall’interpretazione del “rigore” fiscale e monetario che Berlino è riuscita gradualmente a imporre nell’Eurozona. Contro il quale si trova oggi a combattere il presidente italiano della Banca centrale europea, cui l’astrusa, incompleta architettura comunitaria di fatto assegna un ruolo politico, paradossale per il responsabile di un potere formalmente indipendente.
Se l’euro doveva servire a “europeizzare” (leggi: depotenziare) la Germania, non c’è dubbio che abbia fallito. Semmai, la gestione “tedesca” dell’euro, ha largamente servito gli interessi economici tedeschi, almeno fin quando, a forza di desertificare i mercati europei di sbocco delle merci made in Germany, questa astuzia si è rivoltata contro i suoi ideatori, volgendo la stessa Bundesrepublik verso un orizzonte di stagnazione.
Di qui il doppio paradosso: l’invenzione anti-germanica dell’euro è stata sfruttata da Berlino per modellare una politica monetaria e fiscale nell’Eurozona consona ai suoi interessi di breve-medio termine, salvo produrre, insieme una profonda crisi di fiducia nell’Europa e nella bontà delle ricette economiche tedesche. Sicché ora la Germania, che aveva sempre puntato sull’Europa per riconquistare il posto che le spetta nel contesto continentale e mondiale, scopre che proteggendo i suoi interessi nazionali immediati ha destrutturato e delegittimato la cornice comunitaria e i mercati vicini, verso i quali continua a dirigersi più della metà del suo export.
Non sappiamo quali sbocchi potrà avere la crisi in corso. Di sicuro, finché la sfiducia reciproca bloccherà ogni progetto di integrazione politica, l’Europa resterà al meglio un’utopia, al peggio il grimaldello con il quale scardinare ciò che residua delle nostre democrazie nazionali.