
Professore, cos’è al Qaeda oggi?
«Si fonda su un sistema di franchising, di gruppi locali relativamente autonomi che ne utilizzano il marchio, il concetto di Jihad globale contro l’Occidente e il sistema di reclutamento di volontari internazionali. Si sforzano di “parassitare” i conflitti locali e le loro dinamiche particolari (etniche, confessionali, tribali o nazionaliste), e di trasformarli in battaglie del Jihad globale. Però i conflitti locali hanno logiche proprie, e alla lunga possono nascere delle tensioni con la al Qaeda centrale, tanto più dopo la morte di Bin Laden, perché il nuovo leader Zawahiri non ha lo stesso carisma».
È più pericolosa rispetto all’era Bin Laden?
«È meno attiva in Occidente, dove però il reclutamento è aumentato, ma più presente in Medio Oriente. Perché lì i conflitti hanno preso una piega sempre più confessionale (sciiti contro sunniti), e sempre meno nazionale (come è quello palestinese), così risultando più appetibili per le ideologie internazionali.
Nel caos mediorientale, piccoli gruppi possono giocare un ruolo sproporzionato rispetto al loro reale radicamento nella società».
Ma al Qaeda riuscirà mai a vincere i cuori delle popolazioni?
«No, perché o si appoggia su delle minoranze (sunniti in Iraq, le genti del Nord nel Mali) o su frange radicali (Boko Haram in Nigeria). Il suo problema è che non prova ad articolarsi politicamente sulle società civili locali: non se ne cura, disprezza i notabili, non assicura alcuna funzione statale se non una giustizia sommaria, e non cerca vere alleanze politiche. È per questo che sono scomparsi dalla Cecenia, dalla Bosnia e, nel 2006, dall’Iraq del Nord. Sembra che Zawahiri e la siriana Al Nusra abbiano compreso il problema, e infatti sono nati dei problemi con l’Isis. Se al Qaeda vuole radicarsi in modo duraturo, deve passare dallo jihadismo alla politica».
Quanto conta per loro avere uno “Stato”?
«Non fanno che riprendere una vecchia teoria maoista: partire da un territorio “liberato” per espandersi a macchia d’olio e costruire una nuova entità politica. Ma, come detto, perché funzioni a lungo termine serve la società civile. La ragione del successo dell’Isis sta nel suo presentarsi come avanguardia della “revanche” sunnita verso gli sciiti. Ma questo anti-sciismo, in partenza, non è religioso, è politico. I sunniti, che si riconoscono di più nel partito nazionalista Baath, sono stati privati del potere dagli americani e sono stati marginalizzati e umiliati dal governo Maliki. Non gli resta dunque, per il momento, che l’Isis. Però, sia in Iraq sia in Siria, non chiedono la sharia, ma di far parte del potere centrale, che domani non delegheranno certo a un’organizzazione internazionale non radicata. In più, al Qaeda si batte in zone desertiche difficili da conservare militarmente davanti a eserciti moderni come quelli di Iran, Turchia, Arabia Saudita, Usa, tutti oggi suoi nemici. Per questo non potrà vincere. L’Isis non prenderà Baghdad, perché gli sciiti, più numerosi e ormai convinti che è in gioco la loro sopravvivenza, si batteranno, con il sostegno dei curdi. Il grande sconfitto è il governo di al-Maliki, senza più nemmeno un esercito. La sua uscita di scena è cruciale per la ricomposizione del paesaggio politico».
Gli occidentali dovrebbero sostenere Assad, davanti ai tagliagole dell’Isis?
«L’Isis e Assad fanno l’uno il gioco dell’altro. Assad fa parte del problema, non della soluzione. Ma il primo passo è un accordo regionale e internazionale, che includa Iran, Turchia, Arabia Saudita, Russia e Usa. Una prospettiva che però non piace né a Israele né al Congresso americano».