
Come ha saputo che stava per ricevere il premio Nobel per la letteratura?
"Ero per strada. Passeggiavo nel mio quartiere. E’ stata mia figlia che mi ha avvertito. Non mi aspettavo niente di tutto questo... Non immaginavo che i Nobel mi avessero scelto un giorno. A dire il vero, non ci avevo mai pensato. All’improvviso, quel che ho provato quando mia figlia mi ha annunciato che stavo per ricevere il Nobel è stata una sensazione... bizzarra. Strana. E’ come se mi fossi detto che non si tratta di te ma di un altro, di un estraneo. Avviene una sorta di dissociazione... E poi, poco a poco, si finisce per realizzare quel che è accaduto. Ma ero come un sonnambulo. Il risveglio è stato un po’ brutale... La scrittura è un’attività molto solitaria: si è in una sorta di camera oscura, come si diceva un tempo per parlare della fotografia, e di colpo una luce molto cruda ti cade dall’alto... e dunque, sì, ti senti un po’ inebetito. Ma ciò che è molto commovente, è la reazione dei lettori".
Proprio a lei che le posizioni sociali non interessano, ecco che ne ha conquistato ormai una... Che può sembrare opprimente...
"Sì, è un po’ contraddittorio con un’attività come la mia che è invece molto solitaria. Ma non cambia nulla. Voglio dire che continuerò a scrivere nella solitudine. La scrittura è un’attività in cui si è completamente sconnessi, sempre soli. Per molti scrittori, il premio Nobel si accompagna a una sorta di responsabilità... Soprattutto nel caso dei Nobel francesi... Gli anglosassoni erano piuttosto dei romanzieri o dei poeti... Ma in Francia, che si tratti di Anatole France, Romain Rolland o Albert Camus, si tratta di scrittori che, senza essere dei maestri del pensiero, erano anche grandi testimoni del loro tempo. E’ vero. Ma a me piacerebbe proprio sapere perché mi hanno scelto".
I giurati del Nobel hanno precisato che hanno voluto ricompensare “l’arte della memoria con la quale lei ha svelato il mondo dell’Occupazione nazista della Francia”. E’ un buon riassunto della sua opera?
"E’ un po’ ellittico... Ma, sì... In certo senso è così... In ogni caso, i lettori sanno meglio di me quel che ho scritto. La memoria, certo, ma bisognerebbe insistere sul fatto che si tratta, in fondo, dell’oblio. La tela di fondo di tutti i miei romanzi è l’oblio. I veli dell’oblio. La memoria riesce a squarciarli, questi veli, a furia di piccoli strappi, ovviamente. Il mio vero tema è l’oblio più che la memoria. L‘oblio è quello strato che ricopre tutto ciò che è vissuto. La memoria è ciò che tenta di squarciare questo strato. Che però è sempre là. Quanto all’Occupazione, è una cosa diversa. Io sono nato nel 1945. Tutti quelli che sono nati in quello stesso anno, dopo il caos della guerra, ne sono il prodotto. Anche se non l’hanno vissuto. E dunque io non mi distinguo poi così tanto dalla maggior parte di quelli della mia generazione: molti hanno espresso il malessere che consiste nell’essere il frutto di quell’epoca. Se non fossi stato io ad esprimerlo con dei romanzi, credo che altri l’avrebbero fatto. L’Occupazione è per me la notte delle origini“.
Nella maggior parte dei suoi romanzi, la questione della memoria e dell’oblio si esprime attraverso i luoghi. Quelli di una Parigi sognata, in particolare.
"Sì. Spesso, è la topografia che aiuta a far risorgere il passato. Soprattutto in un città, che sia cambiata o meno. Credo che il passato possa riaffiorare solo grazie alla topografia, alla geografia. Il ricordo si nutre anche di tutte le cose che sono cambiate, di tutto ciò che è sparito. Quando ero piccolo, i dintorni di Parigi erano quasi soltanto campagna. Oggi, sono città tentacolari che formano la periferia della capitale. Ma in realtà il ricordo diventa una sorta di paesaggio interiore: il paesaggio reale può essere completamente cambiato, ma viene delineandosi un paesaggio interiore, al quale si mescola l’immaginario, e questo fa riaffiorare i luoghi così com’erano una volta. E conferisce loro una dimensione molto presente. Basta a volte chiudere gli occhi perché un paesaggio, interiore e senza tempo, rimasto com’era, riemerga".
Il luogo principale, nella sua opera, è Parigi. E i suoi dintorni...
"Ma la mia Parigi, è una Parigi sognata. Non è una Parigi della nostalgia. Quella in cui ho vissuto e che ripercorro in lungo e in largo nei miei libri non esiste più, ma non ne sento alcuna nostalgia. Scrivo, certamente, per ritrovarla. Ma non si tratta di nostalgia. Nel senso che non rimpiango affatto tutto quel che c’era prima. Ho incorporato nella finzione una Parigi composta da espressioni vissute e queste espressioni sono diventate atemporali. In realtà, ho fatto di Parigi la mia città interiore. Una città onirica. Dove le epoche si sovrappongono. Si potrebbe dire che nella mia Parigi s’incarna quel che Nietzsche chiamava 'l’eterno ritorno'".
Ritornare sui luoghi significa anche correre dei rischi... E’ il tema del suo nuovo romanzo, “Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier”, Lei scrive, del suo personaggio principale, a pagina 145: “No, non ritornava sui luoghi per riconoscerli, temeva troppo che il dispiacere sepolto fino ad allora si propagasse attraverso gli anni come lungo un cordone detonante”.
"L’immagine della miccia mi ossessiona un po’, debbo dire. E’ il cordone delle dinamiti. Il mio personaggio non vuole più ritornare sui luoghi della sua infanzia per timore che le esperienze dolorose da lui vissute si ripercuotano nel tempo propagandosi come esplosioni lungo un cordone detonante fino al presente. Ritornare al passato, è sempre un po’ come ritornare sui luoghi di un delitto... Si ha paura di essere travolti... Sì, io credo che quel che ci ricollega al nostro passato assomiglia a questo cordone detonante".
Vuol dire che il ricordo, per lei, è una sorta di bomba a scoppio ritardato?
"In un certo senso sì. In fondo, i ricordi d’infanzia sono sommersi in zone di oblio. Restano solo delle piccole isole, dei brandelli enigmatici, fatti di parole intese e isolate dal contesto, di immagini più o meno memorabili... I bambini guardano le cose ingigantendole, senza una visione panoramica. I ricordi d’infanzia sono dei puzzle ai quali mancano molti pezzi, che sono stati poco a poco erosi dall’oblio. Risalire al passato è molto romanzesco. E’ quasi come un enigma poliziesco: i ricordi sono completamente frammentati, i dettagli non si ricollegano necessariamente agli altri... E’ questo che mi ha sempre incuriosito. E di questo ho scritto, in un libro dopo l’altro. Ho l’impressione che tutto ciò che si è vissuto fino a tre o quattro anni è completamente sommerso dall’oblio e che in seguito sopravviva qualcosa che finisce sempre per appartenere alla sfera dell’immaginario: il bambino è un romanziere che non sa di esserlo, si aggrappa a dettagli confusi, e il suo ricordo, anni dopo, è inevitabilmente molto enigmatico. Dunque, sì, il ricordo è una bomba a scoppio ritardato perché ci si pongono delle questioni quando s’invecchia, a proposito di questi pezzi perduti del puzzle, e si cerca sempre di ritrovarli. Nei ricordi d’infanzia c’è qualcosa di enigmatico e talvolta di pericoloso. Anche se l’infanzia è stata tranquilla".
Che non è precisamenete il caso della sua infanzia...
"Diciamo che alla fine ci sono degli eventi che servono da matrice all’immaginazione. Penso ad esempio ad Alfred Hitchcock. All’età di 4 anni, suo padre gli aveva affidato una lettera da consegnare a un commissario di polizia, a Londra. Si era così ritrovato in un commissariato di polizia e il commissario volle fargli paura. Lo rinchiuse in una cella dove vengono segregati i detenuti e gli disse: “Resterai lì per tre ore”. Hitchkock ebbe molta paura. E quando il commissario lo liberò, gli disse: “Se ti comporti male nella vita, adesso sai cosa ti aspetta!”. Possiamo supporre che quest’esperienza infantile sia stata come una matrice per Hitchkock e che tutti i suoi film siano derivati da essa: la suspense, il terrore... Vi sono dunque degli eventi nell’infanzia, molto particolari, che scatenano qualcosa nell’immaginario. Qualcosa che riaffiora anni dopo e si esprime nella scrittura o nel cinema, oppure nella pittura o nella musica".
E nel suo caso? Saprebbe dire qual è l’evento che, durante la sua infanzia, ha costituito la matrice della sua scrittura?
"Ecco... Diciamo che è stato il fatto di essere cresciuto in una casa nei dintorni di Parigi. Allevato da persone diverse dai miei genitori. A contatto con persone che sul momento non sentivo come estranee, ma che in seguito mi sono apparse molto, molto distanti. Perché non capivo bene cosa facessero. E’ un miscuglio di cose molto banali – allora andavo a scuola... – e di un atmosfera un po’ strana – i miei genitori erano assenti. Ma è senza dubbio qualcosa di poco significativo. Tutti i bambini hanno letto dei libri durante la loro infanzia e in seguito hanno sognato di essere rapiti o di partire con il circo che era passato la sera vicino a loro. E’ un po’ il sogno de “L’isola del tesoro” o dei “Contrabbandieri di Moonfleet”. Ai bambini piace avere un po’ paura. Alla fine, l’immaginario e la realtà si sono confusi".
Nel suo libro “Pour que tu ne te perdes dans le quartier”, il personaggio principale ha un sogno ricorrente, che lo perseguita fin dall’infanzia... Nel suo caso, qual è il sogno che la perseguita?
"Quella donna che si occupava di quel bambino al posto di sua madre, in quella casa di Parigi, parte alla fine in treno e lo porta con lei... E c’è un problema di valigie, che finiscono per essere perdute... In effetti questo è un sogno che faccio spesso. Deve corrispondere a qualcosa dell’infanzia... L’idea che io sia coinvolto in qualcosa di molto grave, senza che sappia bene di cosa si tratta... Aspetto di essere convocato dalla polizia, di essere interrogato su questa cosa... Mi sento minacciato... Questo sogno è legato indubbiamente agli eventi della mia infanzia, a quelle persone che mi circondavano e che io trovavo enigmatiche. Si diventa romanzieri proprio a causa di questo: per le cose bizzarre che ci sono capitate, ma anche per i sogni ricorrenti che queste cose hanno generato. Il reale e l’immaginario si mescolano durante l’infanzia. Tutto appartiene, in effetti, all’ordine del romanzesco".
Per riaccendere la memoria, rievocare i ricordi, l’oblio, lei pone il suo nuovo romanzo sotto il segno di Stendhal: “Non posso restituire la realtà dei fatti, posso soltanto rievocarne l’ombra”. Cosa significa questa frase?
"Si può sempre scrivere un libro sotto una forma diversa da quella infine scelta. Questo romanzo può essere, per esempio, un romanzo poliziesco abbastanza classico. La storia di una figlia che parte con un bambino, una sorta di fuga o di rapimento. Mi piace quel che dice Stendhal: piuttosto che affrontare di petto gli eventi del passato, è meglio cercare l’eco, l’ombra, la traccia che quegli eventi hanno lasciato. In modo indiretto. In ogni caso, vi è già una distanza. Quella del tempo. Quando si ricorda qualcosa, non sempre se ne ha un’immagine precisa. A causa del tempo. Piuttosto che tentare di restituire le cose con la più grande precisione, il che vorrebbe dire scrivere in maniera naturalista, preferisco riascoltarne l’eco. Le tracce lasciano una sorta di musicalità. Una melodia. E’ questo che bisogna ritrovare, piuttosto che descrivere le cose".
Ma a volte vi sono dei frammenti di realtà che si arriva a “inserire di frodo”, per riprendere una sua espressione...
"E’ un sogno da romanziere. C’è qualcosa di un po’ infantile in tutto questo. Io scrivo prendendo in prestito alcuni dettagli precisi, nomi di persone che sono realmente esistite, nella speranza che, se mai capitasse loro di leggere questo libro, riconoscano il loro nome e magari diano un segno di vita. In realtà, scrivere è un po’ fare appello ai fantasmi. Io semino dei romanzi, allo stesso modo dei sassolini bianchi lasciati dietro di sé da Pollicino sperduto nella grande foresta... Nel caso che lei ha evocato, il personaggio è diventato un romanziere e si ricorda che nel suo primo romanzo, che era una finzione totale, aveva scritto due pagine tratte dalla realtà, inserita di frodo in un’opera letteraria per cercare di inviare un segnale a una persona ben precisa. Soltanto una persona poteva comprendere quelle due pagine scivolate nell’immaginario del romanzo. Ma io non amo inserire di soppiatto personaggi reali nei miei romanzi. Lo trovo imbarazzante. Ricordo che Nabokov si era servito, in uno dei suoi romanzi, di una donna che aveva conosciuto nella sua infanzia e che gli era molto vicina. Ma in seguito ha provato dei rimorsi, perché lei si era accorta che scivolava in un mondo parallelo e lui stesso finiva per non sapere più bene se era veramente esistita. Trovo che sia sempre un po’ imbarazzante servirsi di una persona molto vicina in un romanzo. Tuttavia, inserire un elemento di realtà che può essere compreso da una sola persona è qualcosa che mi attira molto. Forse è un po’ stramba come idea...".
Questi messaggi personali hanno già portato qualche frutto?
"La cosa terribile è che li ho lanciati spesso nei miei romanzi, scrivendo nella speranza che qualcuno, forse, dia notizia di sé. E dicendo a me stesso che i fantasmi sarebbero probabilmente risorti. Ma questo non è mai successo. Mi chiedo se non l’ho fatto proprio perché già sapevo che in realtà non vi sarebbe mai stata risposta... Ed è proprio il fatto che non vi sia alcuna risposta che mi fa venire la voglia di scrivere, in effetti... Come se ci fosse ancora bisogno di risolvere qualche enigma che non può essere risolto. E’ questo che fornisce l’impulso. Alla fine, se gli enigmi sono risolti, si ha ancora voglia di scrivere? Io credo di no. In fondo è bene che non vi sia una risposta. Perché è proprio questo che permette di continuare a scrivere. Scrivere significa compiere una ricerca che non si sa bene se è vana, ma è proprio perché è incompiuta che lascia la voglia di scrivere".
Qual è il suo rapporto con l’autobiografia?
"In realtà, la prospettiva dell’autobiografia mi ha sempre turbato. La scrittura autobiografica mi ha sempre infastidito. Parlare in modo veritiero di cose intime è un fatto delicato. Gli scrittori che scrivono su loro stessi danno spesso prova di accecamento. Ho sempre trovato che c’era qualcosa di un po’ falso nelle autobiografie. Falso è il loro tono, comunque. Si tende a valorizzarsi. Oppure si dimenticano molte cose, o le si nasconde... L’autobiografia mi è sempre parsa un po’ bizzarra. Sospetta. Si potrebbe del resto fare un “pastiche” delle diverse forme di autobiografie. Mi è piaciuto leggerne alcune, ma anche nelle migliori c’è un che di menzognero. Una sorta di impudicizia. Si mente talvolta per omissione, o presentando le cose sotto un angolo che non è quello della verità ma del travisamento. Tutto questo è un po’ bizzarro. L’impresa autobiografica mi è sempre parsa una sorta di illusione. Salvo se ha una dimensione poetica, come ad esempio nel caso di “Altre rive” di Nabokov, per esempio. Ma io trovo che il tono autobiografico ha qualcosa di artificiale, perchè implica sempre una messa in scena. La mia propensione non consiste nello scrivere per cercare di conoscere me stesso. Non faccio dell’introspezione. Ma cerco piuttosto, con quei poveri elementi casuali che mi hanno segnato – la mia nascita dopo la guerra, i genitori che ho avuto ... – di conferire un po’ di magnetismo a cose altrimenti senza grande interesse. Tento di rifrangerle attraverso una sorta di immaginario".
E che dire allora di “Un pedigree”?
"Si può classificare questo libro nella categoria delle autobiografie – come del resto viene fatto – ma io ho l’impressione che si ricollegava alle altre opere, ai romanzi. In quel libro non raccontavo una vita, la mia. Parlavo di cose che mi erano state imposte. Non è la stessa prospettiva, capisce? Non lo è affatto. Parlavo di cose che mi avevano fatto soffrire ma che mi erano estranee. Si trattava, certamente, dei miei genitori. Ma queste cose mi erano state imposte da loro ed erano quasi dei corpi alieni. Ho scritto quel libro per sbarazzarmene, non per raccontare la mia vita. Il pedigree, come per i cani e i cavalli, rimanda a cose di cui non siamo responsabili: come ai nostri genitori, per esempio. Ma non l’ho assolutamente scritto per cercare di comprendere me stesso. Non era un’autobiografia ma il racconto di esperienze penose con le quali non mi identificavo affatto. Quel che mi commuove nelle grandi autobiografie, quelle dei russi o degli inglesi, è che tutti gli autori parlano della loro infanzia come di un paradiso perduto. Ma per me l’infanzia è stata tutt’altro...".
“Un pedigree” raccontava dunque quel che lei ha ricevuto, non quel che ha scelto né quel che ha costruito. Il fatto di averlo scritto è stata una liberazione?
"Mi sento forse più libero nel modo in cui affronto oggi un romanzo. Perché ho sgomberato il terreno".
Allora a quando le Memorie di Patrick Modiano?
"E’ buffo quel che mi sta domandando... In realtà “Un pedigree” è il condensato di un lavoro molto più lungo e più esteso, che assomigliava in po’ a delle Memorie. E’ quasi un estratto di qualcosa di più ampio".
Che un giorno lei pubblicherà?
"Non lo so. E’ difficile. Bisogna trovare la stessa distanza, è molto complicato. Già esistono, in effetti una ventina di quaderni, dai quali ho tratto 120 pagine per “Un pedigree”. Devo pubblicare il resto? Non lo so davvero. Sarebbe una cosa strana".
Perché?
"Perché si vedrebbe tutto ciò che mi ha permesso di scrivere gli altri miei libri, i miei romanzi. Sarebbe come rivelarne il meccanismo, le basi su cui si fonda la mia opera... Sarebbe molto strano. Come vedere tutto il lavorio che c’è dietro i romanzi... Mi fa una strana impressione!".
Le dispiace?
"Preferisco i romanzi così come sono stati pubblicati. Sono tutti delle specie di autobiografie. I miei libri sono fatti di frammenti autobiografici. Ma pubblicare questi taccuini... Non so".
Dove traccia lei la frontiera tra finzione e racconto?
"Il punto di partenza è sempre qualcosa di molto preciso che non dipende dalla finzione. Un dettaglio. O una scena. Qualcosa che ha davvero avuto luogo. Un frammento di realtà. Dopodichè, mescolo queste briciole di realtà con quello che avrebbero potuto diventare. E questa diventa una sorta di finzione. “L’Horizon” è nato in questo modo: la scena primitiva è quella in cui vedo qualcuno che aspetta un’altra persona all’uscita di un ufficio".
Qual è il suo modo di scrivere?
"Parto dal concreto per procedere verso la finzione. Uso spesso il nome di persone realmente esistite perché questo mi aiuta a sostenere l’impalcatura. E’ un’appropriazione indebita, ovviamente".
Qual è la sua unità primaria: la frase, il paragrafo?
"La frase. La prima frase, la maggior parte delle volte. Ma quando si scrive, si parte alla cieca. Durante il primo mese mi sento spesso scoraggiato e mi chiedo se devo continuare. E’ come se guidassi in mezzo alla nebbia, senza vedere niente davanti a me, ma proseguo lungo la mia strada malgrado tutto, senza vedere niente, senza sapere dove andare, con la sensazione a volte o il timore di aver imboccato una via senza uscita. Ma la cosa molto strana, è che, quando ho questa sensazione di essermi avviato lungo la strada sbagliata, cerco di riprendere la via principale invece di fare marcia indietro. E anziché desistere, mi dico: “E’ una falsa pista, bisogna che mi fermi, pazienza”, poi continuo e cerco di ritrovare la strada principale".
Ha provato questa sensazione con tutti i suoi romanzi?
"Sì, tutti. In alcuni casi, ho seguito forse una linea un po’ più retta... Ma io non sono come quegli scrittori che tracciano il solco con costanza e con fiducia. Ho quasi sempre la sensazione, all’ultimo momento, di essere come un trapezista che arriva, in extremis, ad afferrare il trapezio che gli hanno lanciato".
Con quale mezzo – o grazie a quale miracolo – ritrova il cammino? Ovvero, per riprendere la sua metafora, come riesce ad afferrare il trapezio?
"Attraverso la frase, giustamente. A un paragrafo o a una pagina che mi sembrano una catastrofe la sera prima si può porre rimedio l’indomani attraverso una frase. O togliendo qualcosa. Ma ogni mattina ho la sensazione di recuperare quel che ho fatto la sera prima. Non ho mai provato la sensazione di scrivere seguendo una linea retta. E’ come se navigaste cercando di evitare gli scogli e, all’ultimo momento, riusciste ad aggirarli. L’uso di blocchi di realtà, in particolare nomi propri di persone che ho potuto incrociare, mi aiuta a effettuare questo recupero. Qualche volta, mi servo di molteplici segmenti che potrebbero costituire ciascuno dei romanzi diversi".
Questo, in effetti, spiega il fatto che i lettori dei suoi libri hanno spesso l’impressione che questo o quel passaggio potrebbe essere il punto di partenza di una altro romanzo...
"Sì, ne sono pienamente consapevole. Per cercare di raddrizzare il timone, mi servo di segmenti che avrebbero potuto essere sviluppati in ulteriori romanzi ma che ho bisogno di inserire uno dopo l’altro in quello che sto scrivendo. Sono come qualcuno che cerca di trovare un eccitante artificiale. Cerco quel che potrebbe stimolarmi. E’ quel che si chiama, in gioielleria, un’incastonatura artificiale. Ovverosia, non si percepisce la saldatura di diversi segmenti, si nota solo la fluidità. Io cerco di lavorare così. O meglio, non posso che lavorare in questo modo. E questo mi lascia sempre una sensazione abbastanza sgradevole".
Dobbiamo dedurne che lei non ha un rapporto felice con la scrittura?
"No. Quel che aggrava il mio caso è questo fantasticare prima di iniziare a scrivere qualsiasi cosa, che è per me necessario prima passare all’atto. Sono come quelle persone che si trovano sul bordo di una piscina e attendono ore prima di immergersi: scrivere, per me, è qualcosa di sgradevole, per cui sono obbligato a sognare molto prima di cominciare a farlo, e devo trovare dei modi per rendere gradevole questo lavoro abbastanza lungo e difficile. Devo trovare un forte stimolo. Adesso ho capito, d’altronde, la ragione dell’alcolismo di molti grandi scrittori: credo si tatti di una perpetua bassa tensione e l’alcool funziona come un grande eccitante, anche quando si è finito di scrivere".
Anche per lei l’alcool è la sostanza eccitante?
"No, assolutamente. Io cammino molto. E fantastico. Mi sento come stordito di fronte a frammenti di realtà, spesso del passato, a volte di nomi propri. Questa perpetua esitazione traspare forse dai miei libri... Io non me ne rendo conto".
Per arrivare a questa fluidità fa un grosso lavoro di riscrittura?
"No. Correggo a volte qualche frase, ovviamente, ma quando ho terminato un libro non lo riscrivo, non faccio cambiamenti, non lo riprendo. Ormai è scritto".
Quale disciplina si è dato?
"Se non si arriva a scrivere tutti i giorni, si perde il filo e subentra lo scoraggiamento. Se cominci a chiederti: “A che scopo?” sei fottuto! Io scrivo tutti i giorni proprio per evitare di essere sopraffatto dallo sconforto. E perché faticherei troppo a riprendere dopo un’interruzione, sia pur breve. Si perde facilmente il filo in questo tipo di lavoro, sapete... Tanto più che, come le ho già detto, non vedo mai lo scopo verso cui tendono i miei libri. Se lascio passare un giorno senza scrivere, sono perduto. Navigo alla cieca, perciò devo navigare ogni giorno, se non voglio colare a picco".
La cosa sorprendente è che lei non ha alcuna visione d’assieme del libro che sta per scrivere ...
"In effetti, è così. Io so che la maggior parte degli scrittori sanno dove vanno. Almeno, in parte... Io invece lo ignoro del tutto. Ma alla fine riesco sempre, credo, a raddrizzare il timone".
Chi è il suo primo lettore?
"Non lo so. Davvero. Chi vi è troppo vicino non vi dà dei buoni consigli. Anche in una casa editrice".
Ha un’idea di quello che dirà durante il suo discorso a Stoccolma?
"No. La cosa mi spaventa un po’ del resto perché, evidentemente, i discorsi non sono molto nelle mie corde... Ci vorrebbe un testo piuttosto che un discorso. Un testo molto letterario, forse... Potrebbe andare, no? Credo che è quel farò. Scriverò un testo letterario".
(Traduzione di Mario Baccianini)
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