Studiano, lavorano, soffrono, emigrano ma non 
si arrendono. La ragazza uccisa al Bataclan di Parigi è il simbolo dei giovani italiani che guardano avanti, nonostante tutto. Ecco la sua storia, fatta 
di impegno per gli altri e di amore per la vita

Alle dieci della sera, la solita ora dei concerti, il bar Centrale è un muro di schiene. È arrivata così tanta gente che molti sono rimasti fuori al freddo sulla piazza di Dro, piccolo sciame di luci alla fine della valle che dal Trentino affonda nel lago di Garda. Prima della musica, però, il ragazzo con gli occhiali neri e la barba folta vuole leggere la lettera che ha scritto. Lui è il Rava, il cantante, Andrea Ravagnani, 30 anni, sopravvissuto con la sorella e il fidanzato di lei alla strage nel teatro Bataclan. E tutti, proprio tutti, piangono. Si sono radunati qui venerdì 4 dicembre per ricordare la compagna di Andrea, la Sole, Valeria Solesin, 28 anni, unica italiana morta nell’attacco dello Stato islamico a Parigi. E ora che gli spari dei terroristi hanno separato la vita dal suo corpo, Valeria è ovunque: nel cuore, nei pensieri, anche nella commozione di quanti non l’hanno mai incontrata.

Valeria vive, adesso, sempre. Soltanto chi ha provato a suonare su un palco a questo punto sa cosa significhi quell’attimo in cui gli sguardi dei musicisti si incrociano e la musica sta per partire. E cosa deve significare stasera per Andrea Ravagnani: quello sguardo è sintonia, fiducia reciproca, totale amicizia, dentro e fuori le righe del pentagramma. La notte imminente del bar Centrale viene così risvegliata dai ritmi folk irlandesi della “Rude O’rchestra”. La voce del Rava, il cantante, raccoglie tutta la forza che ha dentro per ribellarsi alla morte, alla guerra, a questo mondo impazzito: «Arde e cresce il desiderio, mentre andiamo via di qua, amaro e dolce sta il paese, imbroglia i sogni e la realtà». Stringe il microfono come quando Valeria lo guardava ammirata e sicuramente un po’ ironica. Come se lei, il suo volto allegro, il sorriso di tante altre sere fossero ancora qui davanti, semplicemente nascosti dalla penombra.

È per questo che “l’Espresso” ha voluto dedicare la copertina del 2015 a Valeria Solesin: per celebrare la voglia di vivere, in un anno di guerre e morte. Il ritratto di Valeria commemora gli innocenti colpiti dal terrorismo, ma allo stesso tempo rappresenta un’intera generazione di ragazze e ragazzi che come lei, il fidanzato, gli amici del bar Centrale sono costretti a emigrare per l’imbroglio di sogni e realtà che l’Italia ha riservato loro. E che, nonostante questo, non hanno perso l’ottimismo e continuano a cercarlo nello studio, nei lavori sottopagati, nelle sofferenze e nei biglietti aerei di sola andata. Studiano, lavorano, soffrono, emigrano. Ma, nella loro semplice normalità, non si arrendono. Mentre qui, dal Brennero a Lampedusa, facciamo davvero fatica a credere che una ripresa economica ci sarà. Con il capitalismo italiano caduto a pezzi, la svendita all’estero delle nostre migliori industrie. E la continua fuga di cervelli, che non costituisce il principale dei problemi: perché il vero problema in Italia sono le orde di cervelli corrotti, mafiosi e disonesti che non fuggiranno mai. Ecco, nei suoi 28 anni anche Valeria Solesin, laureata con lode in sociologia a Trento ed emigrata a Parigi, ha affrontato tutto questo.


Il 3 agosto 1987, quando nasce, sembra una fotocopia dei giorni nostri. Titolo in prima pagina di “Repubblica”: “Massacro alla Mecca. Battaglia tra iraniani e polizia: centinaia di morti”. I seguaci dell’ayatollah Khomeini avevano inscenato violente manifestazioni nella città santa dell’Islam. Sciiti contro sunniti, proprio come oggi. E la Francia minacciava l’Iran: “Se aggredite le nostre navi attacchiamo”. Allora il nemico stava a Teheran: l’alleato era l’Iraq di Saddam Hussein.

Nei primi tre anni Valeria ha tutte le attenzioni di una figlia unica. Abita nel sestiere di Cannaregio a Venezia, con il papà Alberto, professore di lettere alle medie e la mamma, Luciana Milani, laureata in urbanistica e insegnante di tecnologie. Oggi papà e mamma hanno 63 anni e di quel periodo ricordano in particolare una fiaba illustrata da Emanuele Luzzati, il grande scenografo genovese: «La storia parlava di Orlando e dei saraceni», racconta una sera di dicembre il padre: «Valeria aveva due o tre anni e prima di dormire chiedeva di leggerla e rileggerla all’infinito, come spesso fanno i bambini per vedere se le cose nella fiaba sono sempre al loro posto». Orlando e i saraceni: la battaglia tra i mori musulmani che assediano Parigi e i cristiani di Carlo Magno come li immagina il poema cavalleresco di Ludovico Ariosto. Storia, letteratura, fiabe, cronaca, colonialismo, terrorismo: è il nostro Mediterraneo e periodicamente ripresenta il conto mai chiuso con il passato.

Dario Solesin, il fratello, arriva nel 1990. E negli anni successivi una fotografia scattata dalla mamma lo sorprende con Valeria e il papà. Ridono a crepapelle. Dario con le guance rosse come mele e Valeria con i capelli spettinati e le manine aggrappate al piumone. Fuori dalla loro casa felice, gli italiani dopo Tangentopoli ambiscono a costruire un’Italia finalmente civile. E la speranza verrà presto freddata dalle stragi dei terroristi di Cosa nostra.

A volte i nostri bimbi anticipano già da piccoli quello che faranno da grandi. Valeria lo fa vedere in quarta e quinta elementare. Alcuni compagni di classe si portano il pranzo da casa e lei, costretta a mangiare alla mensa della scuola, lo considera una profonda ingiustizia. Protesta vivacemente con mamma e papà, che ancora sorridono al pensiero delle sue intemerate serali. La loro bambina sarà sempre una chiacchierona. Crescere a Venezia è comunque un dono. Lo vedi nella lunga fila di piccoli monopattini colorati, parcheggiati senza lacci né catene alla portata di tutti davanti alla scuola per l’infanzia “San Girolamo”, nello stesso istituto statale che Valeria frequentava e di cui oggi il padre è direttore.

C’è però un momento nella vita degli adolescenti in cui si diventa definitivamente ragazzi: è l’ultima vacanza con i genitori. Dalla terza media mamma e papà mandano Valeria in Francia ai soggiorni studio organizzati a costi contenuti dall’Inpdap, l’istituto di previdenza dei dipendenti pubblici. Un’estate la vanno a riprendere in camper, per proseguire il viaggio fino in Normandia. È l’ultima volta insieme. Valeria ha quindici anni. Frequenta il liceo scientifico “Benedetti”. L’anno dopo vola da sola a studiare sei mesi in un liceo del Canada, a cento chilometri da Québec City. È un programma di scambi internazionali. Torna che è in quarta, all’inizio di febbraio. «È stata una battaglia per Valeria», rivela il papà: «Ricordo il senso di rabbia e frustrazione che aveva. Non capiva come mai una volta tornata dal Québec, la scuola non fosse in grado di organizzare un percorso di rientro. Rischiava invece di accumulare debiti formativi per non essere alla pari con il programma italiano di liceo. Quell’anno Valeria ha lottato duro perché non fosse disconosciuto lo sforzo che lei e altri suoi compagni avevano fatto».

Le estati successive sono vacanze di lavoro. Commessa da Rizzo, una catena di supermercati. Poi al banco di un bar al Lido. Un’altra estate a servire ai tavoli di una pizzeria. Diventa volontaria della sezione veneziana di “Emergency”, l’associazione fondata da Gino Strada. Prepara dolci e pizze da vendere ai banchetti per la raccolta fondi. Nel 2006 è con loro al raduno nazionale a Orvieto. Valeria, 19 anni, ha appena finito il liceo e quando si trasferisce a Trento continua a fare volontariato nella sezione trentina. Perché Trento? «Perché sociologia in Italia si fa a Trento», risponde agli amici. È una scelta presa da tempo. Forse inconsciamente fin dai giorni della prima protesta per la mensa in quarta elementare. La mamma le aveva suggerito di provare con economia. Lei si è iscritta al test di ammissione. Lo ha superato. Ma poi ha seguito la sua passione.

Sociologia a Trento è stata la culla italiana della contestazione studentesca. Dalla famosa facoltà di via Verdi è uscita anche la variante terroristica di Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse. Oggi l’università è un palazzo tirato a lucido e silenzioso come un convento. Gli studenti impegnati si ritrovano altrove, dopo le lezioni.

«I valori che Valeria condivideva sono quelli di tutti i nostri volontari», spiega Fabrizio Tosini, 50 anni, coordinatore di “Emergency”: «Valori come il diritto alla salute, inteso a trecentosessanta gradi, a cominciare dal buon livello di integrazione, sanità, gratuità delle cure. Valeria faceva parte del gruppo che andava nelle scuole elementari e medie su invito degli insegnanti e partecipava ai banchetti per la raccolta fondi». Sabato 17 febbraio 2007 sfila anche lei alla grande manifestazione “No Dal Molin” a Vicenza contro l’allargamento della base militare americana. «Le avevo prenotato io i posti sul pullman e siamo andate insieme», racconta Vania, 27 anni, oggi laureata in scienze politiche e ancora disoccupata: «Valeria diceva che voleva lavorare a Eurostat, l’istituto statistico dell’Unione Europea. Aveva una grandissima determinazione, a cominciare dallo studio. Si muoveva sempre in bici, anche nelle giornate più fredde. Tra di noi ha lasciato un’impronta: con il suo sorriso che regalava a tutti, la sua voglia di vivere, il suo accento veneziano con la erre inconfondibile».

È proprio in quel periodo, poco più di sette anni fa, che a una festa incontra il Rava. Anche Andrea Ravagnani studia sociologia. E così a Dro, il suo paese, gli amici della “Rude O’rchestra” al bar Centrale lo vedono un giorno arrivare con Valeria. Andrea termina il triennio a Trento e va a completare il biennio di specializzazione in criminologia a Forlì. La sua Sole intanto prende la doppia laurea, Trento e Nantes, e conclude il biennio alla Sorbona di Parigi. Poi, sempre nella capitale, il master in demografia e la borsa di studio come ricercatrice all’Ined, il prestigioso “Institut national d’études démographiques”. Dopo le vacanze in Francia e i sei mesi in Québec, Valeria ormai parla francese come fosse la sua prima lingua.

Ma anche per una ragazza determinata come lei, Parigi all’inizio è una città difficile. Valeria si rende conto che i coetanei della capitale sono piuttosto impermeabili ai contatti con gli stranieri. Per tre anni, gli unici amici al di fuori dell’università sono alcuni espatriati italiani e i barboni che Valeria va ad assistere la notte. Per affittare un monolocale, poi, bisogna dimostrare di avere un reddito. E una borsa di studio non è un reddito. Trova finalmente 14 metri quadri a 550 euro al mese. Lavora anche come cassiera da Picard, la catena dei surgelati. È attentissima nelle spese. La mamma scherza chiamandola «la mia pauperista». Una sera dice al telefono: «Ho preso un paio di scarpe a 20 euro». «Valeria, se hai bisogno...». «No papà». Riesce addirittura a risparmiare e a proporre un prestito ai genitori, in un momento in cui hanno bisogno.

L’amore con il Rava resiste alla distanza. Concluso il biennio a Forlì, Andrea si trasferisce a Parigi nei 14 metri del monolocale. È l’estate del 2013. Fa ogni tipo di lavoro: fattorino, garzone. Valeria gli trova i corsi intensivi di francese. Lo prendono come commesso in un negozio di alimentari bio, a poche centinaia di metri dalla redazione di “Charlie Hebdo”. Dopo quel primo attacco, Andrea chiama i genitori a Dro. Valeria telefona a Venezia. Ma nessuno è preoccupato più di tanto.

Parigi sembra davvero la metropoli che offre più opportunità ai giovani europei. Pur con tutte le sue contraddizioni: la libertà proclamata e l’apartheid delle banlieue, le lotte civili e i massacri dimenticati di migliaia di algerini a Sétif e Guelma (giusto per citarne due), l’uguaglianza tra i popoli e il colonialismo, la marcia dei quattro milioni per la libertà di parola in gennaio e il comico Dieudonné M’bala M’bala arrestato nelle stesse ore per aver scritto “Je suis Charlie Coulibaly”, parafrasando lo slogan contro il terrorismo e il cognome di uno degli assassini.

Valeria si sarebbe trasferita volentieri nel Sud della Francia. La scorsa estate con Andrea va in vacanza a Montpellier e a Roussillon. Dice che le manca il suo clima. Le piacerebbe tornare in Italia. Anche se mamma e papà le fanno presente che mentre in Francia un lavoro lo trova, da noi come demografa avrebbe incontrato qualche difficoltà. Ed è un eufemismo. Valeria confida però ciecamente nella razionalità. E la mamma la mette in guardia: «Guarda che il mondo non è razionale».

Ma la vita sembra ingranare la giusta strada a Parigi. Andrea viene promosso direttore di un negozio anche se la paga non è il massimo. E finalmente trovano un bilocale a 800 euro al mese in centro. Una fatica stare nelle spese, comunque costa molto meno di un monolocale a Roma. Valeria è entusiasta perché la nuova casa ha la lavatrice e il divano: una conquista per lei che nelle sue ricerche si occupa di diritto al lavoro delle donne. L’indirizzo è a un quarto d’ora a piedi da Place de la République e a quattrocento metri dal Bataclan. La sera di venerdì 13 novembre entrano tutti insieme a teatro. Valeria, Andrea, sua sorella Chiara e il fidanzato Stefano Peretti. Il concerto degli “Eagles of death metal” e il fine settimana sulla Senna sono il regalo per Chiara, che a fine ottobre si è laureata in biotecnologie.

Ora che Valeria vive ovunque, la nuova prova per Andrea è Parigi. È tornato qualche giorno fa, nel bilocale con la lavatrice e il divano. Negli stessi giorni in cui Jesse Hughes e i “Eagles of death metal”, come i ragazzi del bar Centrale, sono saliti sul palco accanto agli U2 e hanno risposto alle raffiche con la musica di Patty Smith: «People have the power», l’inno da far suonare forte la notte di Natale perché la Sole continui a splendere.